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Historians of the world, unite! Tavola rotonda su “The History Manifesto”, di Jo Guldi e David Armitage

Partecipano: Raffaella Baritono, Paolo Capuzzo, Mario Del Pero, Giovanni Gozzini, Giovanni Orsina

Raffaella Baritono (Università di Bologna) :

Il pamphlet di Guldi e Armitage invita gli storici e le storiche a fare i conti con i processi di trasformazione politica e culturale che stanno modificando i rapporti tra sapere e politica, i processi di formazione e di costruzione della cittadinanza, i concetti e le categorie che sono in grado di dare senso ai mutamenti della contemporaneità come pure con il modo in cui si costruiscono le linee di definizione gerarchica di categorie e discipline.

L’oggetto principale della critica di Guldi e Armitage, il fantasma che a loro avviso aleggia oggi – ‘the spectre of the short term’, per usare la loro espressione – è solo l’occasione per una riflessione di più ampio respiro e che merita la nostra attenzione per i problemi grandi e complessi che solleva.

D’altra parte che la loro sia più che una considerazione sulle nuove tendenze o derive storiografiche lo si capisce dalla quarta di copertina del libro  – non casualmente pubblicato in formato open access per garantire la massima diffusione- : ‘The History Manifesto is a call to arms to historians and everyone interested in the role of history in contemporary society’.

All’interno dell’attuale discussione sul declino delle ‘humanities’, la crisi della storia come disciplina e come strumento di formazione delle classi dirigenti sembra essere particolarmente rilevante, frutto, per Armitage, non solo della temperie dei tempi, ma delle scelte storiografiche e conseguenza paradossale della tendenza a una crescente professionalizzazione.

‘History’s place in public life remains fragile and uncertain’, afferma Armitage in un saggio che riprende le argomentazioni del libro. Una posizione marginale che a suo avviso ‘[it] is partly self-inflicted, partly the unintended consequence of professionalization, partly the result of more aggressive claims to influence by other academics, especially by our colleagues in Economics’.

Se gli storici cominciassero ad abbandonare il microscopio, se riprendessero la lezione di Braudel della lunga durata, una via d’uscita potrebbe esserci. Proprio i processi di globalizzazione e le sfide della contemporaneità fanno sì che solo le discipline storiche abbiano la capacità di offrire uno sguardo allo stesso tempo ampio e di lunga durata (‘to go wide and to go deep at the same time’) e nessun’altra disciplina nel campo delle ‘humanities’ (‘arguably, no other academic discipline’) ha la potenzialità di offrire un’analisi che sia al contempo trans-nazionale e trans-temporale. Quest’ultimo termine ‘implies crossing time-periods and traversing the conventional segments – often quite short or quite narrow – into which historians conveniently slice up the past… Transtemporal history can already be found in the idea of various ‘long’ centuries’.

Le nuove innovazioni tecnologiche, l’acquisizione dei cosiddetti ‘big data’ come nuova fonte e metodo per un’analisi ad ampio spettro costituiscono, per Guldi e Armitage, un’ulteriore possibilità per le discipline storiche di riconquistare un ruolo più centrale nella gerarchia del sapere, soprattutto in relazione ad ambiti come quello delle disuguaglianze, della storia ambientale o della globalizzazione.

Il pamphlet sollecita molte osservazioni critiche e non. Mi soffermo solo su tre questioni di carattere più generale, senza entrare nel merito di una discussione sulle riflessioni storiografiche e sull’uso dei dati che loro pongono a fondamento della loro analisi.

Prima questione: per essere uno “History Manifesto” il saggio di Guldi e Armitage è allo stesso tempo ambizioso e pecca di arroganza.

Ambizioso perché, al di là della condivisione o meno delle analisi che propongono sullo stato della disciplina e sulle possibili soluzioni di rilancio, i due autori si sono assunti il compito non indifferente di lanciare quella che loro stessi definiscono una ‘provocazione’, scuotendo le coscienze e solleticando l’orgoglio di una categoria professionale che forse si è troppo presto arresa di fronte all’arrembante slancio di quegli specialisti (gli economisti, ma non solo) apparentemente più capaci di offrire ricette (in realtà non necessariamente funzionanti come lo stato dell’economia mondiale dimostra) e parvenze di oggettività e neutralità.

Arrogante, perché il loro discorso si fonda su un’analisi che, in realtà, per voler essere globale (‘a call for historians’) appare alquanto parziale in quanto si basa tutto sommato su dinamiche e tendenze che riguardano fondamentalmente la storiografia anglo-americana. E questo è un problema di metodo se non di prospettiva.

La base su cui fondano il loro ragionamento, vale a dire il fatto che dal 1975 la storiografia è sempre più orientata verso un orizzonte di ‘short term’, è giustificata dai dati relativi al numero e alla qualità delle tesi di dottorato licenziate dalle università americane. E’ possibile che questa tendenza la si possa ritrovare in altri contesti storiografici, ma non ci sono in realtà riferimenti a lavori storiografici di altri paesi se non quelli che hanno avuto una traduzione o un impatto sulla storiografia americana che possano suffragare un approccio di tipo generalizzante.

Una prospettiva, quindi, di fatto anglo-centrica che contraddice l’ipotesi che la via d’uscita per la storiografia contemporanea sia quella verso una storia ‘trans-nazionale’ e ‘trans-temporale’, che appare così più un enunciato che non un metodo praticato.

A me pare che le argomentazioni di Armitage e Guldi siano soprattutto una resa dei conti all’interno della storiografia statunitense che è stata attraversata, per poi influenzare sicuramente anche altri contesti storiografici, da una serie di ‘turn’ (cultural turn, linguistic turn, transnational turn ecc.), e soprattutto da una moltiplicazione di filoni e approcci che più che arricchire e rendere complesso il sapere storiografico hanno teso a imporre paradigmi e categorie d’analisi. Pensiamo a quella che ormai appare la stantia contrapposizione tra storia sociale e storia politica (con le diverse ‘new political history’ che si sono succedute) o anche a quella, a volte lacerante, contrapposizione tra women’s history e gender history, o ancora alle infinite discussioni su world history, global history e transnational history.

Tutti dibattiti (e a volte mode culturali) che hanno da un lato sicuramente arricchito le modalità di comprensione del passato, hanno introdotto nuove categorie, hanno reso ‘visibili’ soggetti che erano stati ai margini del racconto storico, ma dall’altro, inserendosi in un contesto di competizione accademica e di ‘mercatizzazione’ del processo di formazione, hanno anche il sapore di processi che, in modo più o meno consapevole, hanno accompagnato l’altrettanto potente dispiegarsi di un’organizzazione neoliberista del sapere.

Un nuovo filone storiografico significa nuovi dipartimenti, nuove cattedre, nuovi dottorati, collane editoriali, riviste, vale a dire ‘quote di mercato’ che si aprono e che entrano nella competizione fra i diversi dipartimenti e le varie università.

Di tutto questo non vi è traccia e né se ne discute in modo convincente nel saggio di Armitage. O comunque non viene messo al centro dell’analisi quello che appare sempre più come un discorso di analisi dei processi di trasformazione delle condizioni ‘materiali’ della conoscenza nel contesto accademico contemporaneo caratterizzato non da una crescente professionalizzazione (come sostengono i due autori, perché dubito che gli storici del passato potessero essere considerati meno ‘professionali’), ma da una crescente ‘messa a valore’ della loro produzione (il ‘publish or perish’, e specificamente processi di valutazione sempre più di tipo quantitativo a scapito della qualità, messi in atto da agenzie private che concorrono sul mercato e determinano rapporti di potere e riconfigurazione degli assi del sapere secondo linee di mercato, ranking che misurano la produttività e la presunta capacità di creare ‘impatto’ o messa in circolazione dei risultati della propria ricerca (per esempio attraverso i citation index).

Da qui (anche se non solo da qui), la scelta per una dimensione ‘micro’ (secondo la definizione di Armitage e Guldi) che privilegia la possibilità di padroneggiare fonti e bibliografia rispetto alla ‘rilevanza’ del tema trattato, ma che permette anche di creare propri spazi nel ‘mercato’ della ricerca andando a coprire ‘quote’ di mercato che sono a disposizione. Una dimensione ‘micro’, tuttavia, che è imposta, per certi versi, proprio da quella rivoluzione tecnologica e dalla possibilità offerta dai ‘big data’ che Armitage e Guldi individuano come una delle possibili via d’uscita dalla crisi della disciplina. Tutti coloro che hanno vissuto il passaggio alla rivoluzione tecnologica e informatica si sono interrogati sulla situazione di ambivalenza che tutto ciò ha prodotto: da un lato un ampliamento inimmaginabile della disponibilità di fonti primarie e secondarie e dall’altro, come effetto consequenziale ad esso, la presenza di nuove sfide in termini di uso di categorie d’analisi, di capacità di padroneggiare e selezionare una mole notevole di documenti e di letteratura e soprattutto di padronanza linguistica in grado di poter permettere l’accesso e l’utilizzo della pluralità di fonti e documenti a disposizione.

Secondo punto. Armitage e Guldi si sono soffermati sui cambiamenti della storiografia (americana) a partire dal 1975 per mettere in luce il ‘retreat to short-term studies’ e la loro incapacità di affrontare problemi di lunga durata e ampio spettro, come si è accennato sopra, come i cambiamenti climatici, la persistenza delle ineguaglianze economiche, le aporie dei processi di governance globali ecc. Affermazione che, per inciso, è stata fortemente contestata da un saggio di Deborah Cohen e Peter Mandler pubblicato sullo AHR Exchange di qualche mese fa. Un ritiro in una sorta di torre d’avorio, quella denunciata da Armitage e Guldi, che spiega la irrilevanza pubblica (e politica) della storia.

Argomento questo che, in realtà, suscita non poche perplessità se pensiamo al modo in cui l’affermazione di alcuni, nuovi, filoni storiografici a partire dagli anni ’60 e ’70 del ‘900, nei campus americani (e non solo), sia stato in realtà conseguenza di una battaglia che ha avuto al centro la questione del rapporto potere-sapere, per quanto con le derive impreviste e paradossali discusse sopra.

La messa in discussione della ‘presidential synthesis’ nella storia politica, la battaglia per la storia ‘from the bottom up’, l’introduzione degli studi di genere, dei black studies, dei Latino studies, dei gay and lesbian studies, degli studi postcoloniali, il rinnovamento della labor history, solo per fare alcuni esempi, hanno, al contrario, rilanciato la funzione pubblica e politica della storia come disciplina centrale della ridefinizione della cittadinanza e del concetto di identità plurime dentro lo spazio politico americano.

Inoltre, la storia è stata al centro delle controversie accese che hanno contraddistinto il dibattito pubblico e politico statunitense nel corso degli anni ’80 e ’90. E’ famosa ad esempio la accesa discussione che, negli anni ’90, riguardò i cosiddetti ‘National Standard’, che dovevano suggerire le linee guida di insegnamento della storia nei curricula scolastici, come pure si ricorda il grido disperato di uno storico liberal come Arthur Schlesinger, sempre negli stessi anni, che vedeva nella messa in discussione della narrazione storica consensualista una sorta di attacco all’identità americana e una deriva verso la ‘disunione dell’America’.

Gli infiniti dibattiti sull’uso pubblico della storia, sull’importanza della storia nella rivendicazione della soggettività di gruppi che hanno messo in discussione la storia americana come narrazione del ‘circle of the we’, configuratosi invece come un ‘circle of ethnos’, l’accusa, al contrario, ad interi filoni storiografici (come la black history o la women’s history) di essere una storia ‘militante’ rendono difficile comprendere l’affermazione di Armitage, uno storico sofisticato e tutt’altro che ignaro delle discussione storiografiche recenti, secondo cui ‘History’s place in public life remains fragile and uncertain’ (Armitage, Horizons of History).

O meglio, appare difficile comprendere che la ragione sia nel ‘retreat to short-termism’.

A mio avviso, il problema è quello di capire cosa sia accaduto nel passaggio dalla storia come disciplina narrante una modernità vista come spazio omogeneo e vuoto votato alla linearità del progresso alla storia come disciplina ‘plurale’, una disciplina composita di più storie e di più narrazioni e che quindi, come tale, forse può rendere evidente gli scarti, le contraddizioni, i conflitti e appare meno in grado (ma deve farlo?) di offrire una ‘master narrative’.

E’ probabile che nel contesto americano, in particolare, la storia abbia finito per diventare vittima di se stessa, contribuendo ad avvalorare, nella messa in discussione del principio di autorità, una politica delle identità che in campo storiografico accanto a un processo di ‘orizzontalizzazione’ ha però contribuito ad alimentare la frammentazione metodologica e categoriale, moltiplicando i linguaggi e rendendo sempre più complicato trovare una sintesi che non fosse riproduzione di nuove gerarchie e nuove marginalità.

Il processo di ‘orizzontalizzazione’ ha finito per condizionare le basi di una ricerca storiografica che per necessità metodologica ha bisogno di operare una selezione e quindi anche stabilire una gerarchia delle fonti. Il timore di riproporre versioni aggiornate di ‘master narrative’ ha favorito, probabilmente, l’ampliamento della ricerca di base, necessariamente circoscritta e focalizzata (il ‘cult of professionalism’ per usare l’espressione di Davide Cannadine), ma non è stato ancora in grado di proporre ipotesi di storia ‘comprendente’ più coraggiosa e teoricamente consolidate. Di fronte a questo nodo cruciale, è pensabile che, come Armitage e Guldi propongono, la soluzione sia il ritorno alla longue durée o addirittura alla Big History?

Da questo punto di vista il transnational turn, se da un lato è capace di affrontare i nodi problematici emersi da una critica alla storiografia come espressione dello stato-nazione, permettendo tra l’altro una contaminazione feconda tra approcci storiografici non sempre dialoganti fra loro (penso ad esempio alla nuova storiografia internazionale che ha risentito in modo positivo degli approcci di storia culturale, postcoloniale e di genere), dall’altro non è in grado di risolvere la tensione prodotta tra pluralizzazione storiografica e necessità di una sintesi.

Si tratta quindi della necessità di operare sul lato della teoria piuttosto che sull’aspetto metodologico, con il rischio, tuttavia, di riproporre una nuova versione della ‘filosofia della storia’?

O non si tratta invece di una questione che, di nuovo, riguarda il problema più complessivo che ha a che fare non solo con la crisi delle ‘humanities’, ma con i modi, i tempi, i luoghi e i soggetti della produzione di sapere?

Questo mi permette di introdurre il terzo e ultimo punto: si deve parlare di una crisi della storia come ‘crisi delle humanities’?

Armitage e Guldi di fronte ai lai sulla crisi delle ‘humanities’, affermano che ‘the humanities have been in recurrent crisis for the last fifty years at least. … The humanities can appear ‘soft’ and indistinct in their findings compared to the so-called ‘hard’ sciences. They can seem to be a luxury… they can be vulnerable… The humanities are incidental (not instrumental), obsolescent (not effervescent), increasingly vulnerable (not technologically adaptable) – or so their enemies and sceptics would have us believe.’

Un grido di allarme che risuona anche in Europa. In uno special issue di Humanities pubblicato di recente, Jurgen Mittelstrass, mette in luce come ‘the humanities have a problem with visibility both in the public sphere and in the academic system itself, and they have an organizational problem when compared with other sections of the academic system. They also have a funding problem, particularly in a European context, i.e., in the framework of European research policy’.

Nell’Europa del sistema di ricerca, le ‘humanities’ hanno un ruolo tutto sommato minoritario in comparazione con quello che riguarda le scienze sociali e le scienze naturali per ragioni legate alle priorità economiche e politiche, ma anche, secondo Mittelstrass, per un problema più generale dovuto a ciò che considera come ‘a cultural loss in society’ e che mette a repentaglio l’idea stessa di una cultura e di un’identità europea.

Un obiettivo che in realtà incontra ostacoli proprio da quel processo di valutazione e accreditamento che le istituzioni europee hanno avvalorato e che, come si è accennato sopra, finiscono per creare effetti distorcenti, normativi e disciplinanti soprattutto in questo campo. Nello stesso numero della rivista, Cinzia Ferrini, ad esempio,  mette in luce come ‘humanists express specific concerns about the distorting effects of the link between funding and ‘performance’, where performance is misunderstood in terms of evaluating research only in renard to the name of the publisher, the number of citation, the influence of the journals, the fundamental value assigned to ‘impact factors’, and trusted citation indices and databases (.) that do not cover publications as translations or commentated editions, or mention whether a publication is international or national.’ Soprattutto, continua Ferrini, ‘humanistic studies written by non-Anglophone scholars from institutions outside the Anglophone world have significantly less chance of being accepted. This is underscored by the high rate of rejected papers that leading journals are often proud to show in order to obtain credit. … when humanists who are neither digital natives nor Anglophones adopt forms of communication borrowed from the sciences, they risk renouncing their rigorous vocabulary and the complexity and nuance of arguments, and delivering simplified and unsatisfactory accounts to their audience. Hence, problems widely recognized in the humanities are monolinguism (dominated by English); publishing conglomerates that impose their diktats on libraries; a lack of appealing (..) and most importantly, the leadership of allegedly trustworthy citation indexes.’

E con questo si ritorna al problema posto all’inizio, vale a dire il rapporto fra presunto ‘declino’ della storia e trasformazioni delle condizioni ‘materiali’ del fare ricerca (inclusa ricerca storica) nel contesto contemporaneo.

Come e in che modo l’introduzione di tecniche e criteri che sono propri dell’ideologia neoliberale hanno finito  per mettere in discussione la capacità delle discipline umanistiche e della storia in particolare di ergersi se non nel tradizionale ruolo di ‘magistra vitae’, quantomeno come indispensabile bagaglio per la comprensione e l’analisi del presente?

Non a caso Armitage e Guldi citano l’importante libro di Daniel Rodgers, Age of Fracture, nel quale lo storico americano mette in luce in che modo dalla seconda metà del ‘900 si sia operata una compressione temporale che ha portato a ‘the here and now of the immediate present’ come unico orizzonte temporale che si è accompagnato a una altrettanto inestricabile frammentazione del sapere e della conoscenza.

Solo la storia e le humanities sono state le vittime di questo processo le cui radici, soggetti e dinamiche dovrebbero essere indagate proprio dagli storici per determinarne entità e origini?

Armitage e Guldi ritengono di sì quando, riprendendo  Peter Novick e la sua espressione ‘there is no king in Israel’, che testimoniava della frammentazione avvenuta e chiaramente percepibile già negli anni ’80 del ‘900, per avvalorare il fatto che lo stesso Novick, assieme a Bailyn, Palmer, Cannadine avevano confuso causa ed effetto e non avevano individuato nella tendenza alla short durée la causa prima della disintegrazione della professione.

A me pare, invece, che questo processo riguardi non solo la storia e le humanities ma si estenda anche a coprire quelle scienze sociali, il cui individualismo metodologico è stato considerato come un criterio egemone che ha finito per essere esteso anche ad altri campi disciplinari confinanti.

Eppure, se si osserva il dibattito che da qualche tempo è presente nelle riviste espressione dell’American Political Science Association, si possono individuare temi familiari che dimostrano come, forse, non tutto sia stato perso nel processo di professionalizzazione e cristallizzazione disciplinare che ha portato discipline dialoganti fra loro nella loro fase fondativa (come la storia, la scienza politica, la sociologia e persino l’economia) a diventare una sorta di castelli fortificati con, soprattutto da parte di scienziati politici e sociali, la presenza di guerrieri e guerriere pronte a difendere la purezza disciplinare e ad evitare qualsiasi tipo di contaminazione.

Faccio riferimento per esempio all’intervento di Jeffrey Isaac, direttore di Perspectives on Politics, il quale, in polemica contro quegli scienziati politici che ritengono che il futuro della loro disciplina (preso atto ormai della divaricazione con le ‘humanities’) sia quello di affermare il dialogo con le scienze naturali ed esatte, costruendo le scienze politiche e sociali come scienze quantitative basate su ‘big data’, ha affermato: “By construing quantitative social science as “big data” that “has something to do with people,” King implies that social means “something to do with people.” On this view most things having to do with people are central to social science, from their genetics to their brain chemistry to the epidemiology of their diseases to their climatological determinants to their responses to all manner of small group experiments. But there is a diff erent view of “the social” as developed by such classical social theorists as Marx, Durkheim, Simmel, and Weber. On this view, social science is inquiry into the historically evolved understandings, institutions, and relations of power that enable and constrain what people can do as members of different kinds of societies.’

Il riferimento è non solo ai classici della scienza sociale e politica, ma anche ai lavori dei cosiddetti ‘historical institutionalists’ come Charles Tilly, Theda Skocpol, Ira Katznelson che hanno sapientemente dimostrato nei loro lavori come continui ad avere importanza, nello studio del politico e dei comportamenti politici, un approccio di tipo storico, attento al contesto e ai processi di sviluppo politico.

Così come, il problema della rilevanza pubblica della disciplina, della sua capacità di fornire risposte e interpretazioni di ampio respiro contro una ‘professionalizzazione’ che spinge alla ricerca empirica minuta, comincia ad essere dibattute da una disciplina che sembra, agli occhi degli storici, godere di maggiore salute e visibilità accademica.

Eppure, è dagli anni ’90 che all’interno dell’associazione si è aperto un dibattito sul problema della rilevanza della disciplina e sui pericoli che i processi di ristrutturazione accademica, dividendo ricerca e insegnamento e veicolando le risorse e i finanziamenti, stanno facendo correre alla scienza politica americana e al contributo che essa può dare al rafforzamento della democrazia americana. E tuttavia, a dispetto di posizioni diverse, ‘on the collective level, the discipline has over time given greater priority to becoming more truly scientific, rather than to contributing to democracy or America—while continuing to seek to minimize the tensions among those goals’. Nonostante il dogma del ‘rational choice approach’ sia andato affievolendosi, la ricerca di un’oggettività che renda la scienza politica paragonabile e quindi competitiva rispetto alle discipline STEM (science, technology, engineering, and math) sta non solo producendo una distanza fra ricerca e insegnamento, ma contraddicendo quel fine civico che era stato l’obiettivo primario della disciplina fin dalle origini.

Di nuovo, Isaac, ritornando su questi temi, questa volta sulla rivista di cui è direttore, ha messo in luce come alla base della creazione della rivista vi fosse non solo l’obiettivo di porre questioni di rilevanza pubblica, ma vi era anche la consapevolezza che la scienza politica ‘had become hyper-specialized and balkanized, consisting of subgroups of scholars who spoke only to each other in increasingly

private languages, to the detriment of both collegiality and real intellectual progress.”

Le motivazioni alla base della decisione di fondare la rivista continuano ad essere rilevanti ancor più oggi, sostiene Isaac, a 13 anni dalla sua fondazione in un contesto in cui una parte della scienza politica americana ritiene che la sua missione sia quella di rafforzare il ‘DA-RT’ (Data Access and Research Transparency in political science), vale a dire “The view that social science is a group activity, requiring inter-subjective knowledge being created using public processes that are warranted to add value, is common to virtually every scholarly tradition”, non perdendo di vista il fatto che il DA-RT cerca di rafforzare ‘the legitimacy and credibility of scientific claims’ fra gli scienziati politici e ‘in the broader world of knowledge ‘consumers’, by upgrading the methodological purity of research procedures’, come sintetizza Isaac nel suo intervento.

Appunto: procedure, legittimità scientifica di tipo oggettivo e neutrale, purezza metodologica, consumatori del sapere. Forse dalle criticità individuate vi possono essere spiragli per ripensare i rapporti fra le discipline, avviando un nuovo dialogo e allentando rigidità e confini metodologi, per individuare nuove categorie di analisi più capaci di dare conto della complessità delle vicende individuali e collettive che non possono essere ricomprese solo all’interno di dati e di misurazioni quantitative.

Da questo punto di vista Armitage e Guldi hanno ragione: in questo contesto la storia ‘the discipline and its subject-matter – can be just the arbiter we need at this critical time’.

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Paolo Capuzzo (Università di Bologna) :

«A spectre is haunting our time… historians of the world unite! There is a world to win – before it’s too late».

Con un po’ di autoironia, David Armitage e Jo Guldi hanno scelto queste due frasi per incorniciare, in apertura e chiusura, il loro testo. E’ una scelta che rafforza l’intento, già esplicitato nel titolo, di redigere un manifesto. Del manifesto, il volumetto di Armitage e Guldi presenta certamente alcuni caratteri: l’intento performativo, vale a dire di mobilitazione di un gruppo – in questo caso gli storici – la normatività, il carattere apodittico. Al contempo si tratta di un testo che presenta anche i caratteri propri del saggio scientifico, vale a dire che argomenta, esemplifica, entra in confronto critico con un contesto di ricerca ed è dotato di un imponente paratesto (delle circa 180 pagine totali, una cinquantina sono di note). E’ inevitabile che la lettura di questo libro sia condizionata dal suo statuto incerto; esso comunque rivela il suo maggiore interesse come manifesto, al contempo sintomo di una generale condizione degli studi storici nel contesto anglo-americano e programma politico di rilancio della storiografia. Se ci dovessimo infatti soffermare ad analizzarne il contenuto sotto il profilo scientifico esso ci apparirebbe inevitabilmente discontinuo, ripetitivo, talvolta sfocato e superficiale.

  1. La pars construens del manifesto si propone di riportare la storia al centro del sistema delle scienze umane, togliendola dalla condizione di minorità nella quale sarebbe precipitata. Questa condizione di minorità, secondo gli autori, si è venuta determinando in conseguenza della sempre maggiore limitatezza di orizzonti nella quale la ricerca storica si è progressivamente ritirata, in particolare con la riduzione degli ambiti cronologici dentro ai quali si esercita. Quando Braudel, nel 1958, elaborò il concetto di longue durée, intendeva reagire al presentismo della sua epoca e mettere la storia al servizio del futuro in un periodo nel quale, dopo gli anni cupi del lungo dopoguerra, l’Europa, e il mondo, riconquistavano fiducia sulla progettabilità del futuro. La lunga durata di Braudel prometteva di far comprendere le cause più risalenti del presente e di come esso fosse il risultato di una lunga serie di scelte e di circostanze. La storia come strumento di comprensione del passato al fine della progettazione del futuro ha una lunga tradizione che dalla storiografia antica conduce a Machiavelli, gli autori richiamano soprattutto la tradizione storiografica britannica più recente che dai coniugi Webb a Hobsbawm ha istituito un nesso stringente tra la ricerca sul passato e l’elaborazione di strategie per il cambiamento, sociale e istituzionale. Anche in ambito antimperialista prima e postcoloniale poi – gli autori fanno esplicito riferimento a C.L.R. James – nei decenni del dopoguerra la storia è servita a disegnare percorsi di emancipazione. In quel periodo gli storici rivestivano alti incarichi pubblici (Arthur Schlesinger Jr.) o comunque i loro lavori erano letti da scienziati sociali e policy maker che se ne servivano per comprendere le lunghe radici dei problemi contemporanei dalla povertà al welfare, alla democrazia, alle relazioni internazionali ecc. Oggi invece, sottolineano gli autori, la storia sta scomparendo dai curriculum dei funzionari pubblici, solo la storia militare continua a rivestire un ruolo importante nella formazione dei militari di carriera. Un primo problema è rilevabile in questa rapsodica ricostruzione delle funzioni civili della storia nel passato che gli autori contrappongono alla miseria del presente. La storiografia dell’Ottocento e del Novecento, infatti, non è servita soltanto a sostenere progetti di emancipazione, ma è stata altrettanto, o forse maggiormente, il puntello dello status quo e attraverso compiacenti ricostruzioni del passato ha spesso finito per celebrare il presente anche quando esso si presentava con le sembianze sinistre del nazionalismo, dell’imperialismo e del fascismo. E’ opportuno ricordare ciò perché quella storiografia “soggettivista”, “decostruzionista”, “minimalista” che gli autori ritengono responsabile dell’attuale crisi storiografica spesso ha preso le mosse proprio dalla volontà di smontare miti storiografici sui quali si erano retti dispositivi di dominio istituzionale e culturale. Ciò significa, insomma, che nel passato la storiografia ha avuto tendenze contraddittorie e conflittuali al proprio interno e che non è mai esistita un’età dell’oro nella quale essa abbia assunto una funzione esclusivamente progressista.
  1. Gli autori sostengono che tra gli anni Settanta e Ottanta la storiografia ha iniziato a ritirarsi su argomenti vieppiù ridotti e specialistici, concentrandosi su ristretti orizzonti temporali. La temporalità propria dell’esistenza umana è diventata la misura dell’operazione storiografica, così che gli storici si sono progressivamente concentrati su un arco cronologico che va dai 5 ai 50 anni. Se per certi aspetti questo concentrarsi su fenomeni circoscritti nel tempo (e nello spazio) ha consentito di illuminare criticamente la microfisica del potere e le sue istituzioni, d’altro canto questa produzione si è slegata dai grandi sguardi alla lunga durata. Gli autori non mancano di riconoscere come la microstoria – nella sua originaria fondazione italiana – abbia avuto la fondamentale funzione di decostruire le narrazioni “evoluzionistiche” e “naturalizzanti” del passato proprie di molte scienze sociali – e delle scienze storiche influenzate da esse – per restituire alla ricerca storica proprio il compito di rintracciare le motivazioni e le modalità dell’agire, attraverso una sofisticata ricostruzione delle differenze culturali e dell’articolazione dei tessuti sociali. Questo approccio micro, peraltro, non escludeva che si facesse riferimento ad ampi contesti cronologici e spaziali, come risulta evidente dall’opera di Carlo Ginzburg.Nella sua traduzione americana attraverso la Francia, tuttavia, la microstoria è diventata specialismo e intensificazione del lavoro di archivio fine a se stesso. E questo è un altro punto nel quale la genericità della ricostruzione degli autori lascia inevitabilmente perplessi, se non altro perché non conduce a una chiara identificazione del “nemico”, cosa che ci si aspetta essere uno dei punti qualificanti di un “manifesto”. Si richiama invece un contesto storico-intellettuale molto generale nel quale le tendenze geertziane alla thick description, la decostruzione della concezione liberale del soggetto da parte della politica delle identità e della teoria postcoloniale, lo scetticismo postmoderno nei confronti delle grandi narrazioni avrebbero cooperato al colpevole abbandono della longue durée. Un maggiore approfondimento di questo passaggio mi sembra indispensabile. Le tendenze culturali che stanno all’origine del decadimento nella “short durée”, infatti, sono state decisive nel mettere in radicale discussione i pregiudizi etnocentrici e le funzioni ideologiche che la storiografia aveva assunto nella legittimazione dei dispositivi di dominio sui quali si è retta la moderna società occidentale. Posto che anche gli autori – sebbene molto en passant – riconoscono la rilevanza di questa funzione critica, risulta cruciale cercare di capire come non disperdere questo potenziale critico nel ritorno a una grande scala che gli autori individuano come la leva fondamentale per rilanciare la storiografia globale.
  1. Dal ritiro degli storici nello specialismo sarebbe derivata una progressiva marginalizzazione della disciplina e il successo di quella che gli autori definiscono una dirty longue durée, vale a dire narrazioni di lungo periodo prodotte da non storici e che perlopiù agirebbero come strumenti di legittimazione dello status quo. A questo tipo di produzione gli storici dovrebbero rispondere con una storiografia critica in grado di evidenziare il ruolo della volontà e dell’azione nella storia, presentandola come il frutto di scelte, decisioni, rapporti di forza; una storia capace di esercitarsi anche sul terreno controfattuale proprio per destabilizzare l’apparente necessità del suo corso. Nel mondo globale del post guerra fredda si sarebbero aperte questioni epocali che chiamano a una rivisitazione profonda del modus operandi delle scienze storiche e a un ritorno della longue durée: la crescente disuguaglianza, la crisi di governance del mondo globale, il mutamento climatico in relazione al modello di sviluppo e agli stili di vita.Non a caso, uno degli ambiti emergenti nei quali la storiografia sta riqualificando la propria presenza scientifica in rapporto ad altre scienze è quello della storia ambientale. Essa si presta anche ad utili esercizi di storia controfattuale, vale a dire che consente di immaginare ipotetici scenari storici in assenza di determinati sviluppi tecnologici – come il motore a scoppio – che sono diventati una minaccia per il pianeta. La storia ambientale si fonda su serie di dati che coprono secoli, talvolta millenni, che riguardano le acque, l’inquinamento, l’energia; cerca di comprendere come siano state affrontate in passato le crisi ambientali, attraverso quali meccanismi istituzionali e modelli di governance. Indagandone le origini, infine, la storia consente di riconsiderare criticamente alcune categorie considerate neutre e che invece celano precisi rapporti di potere e progetti di governo, come sostenibilità, sviluppo, cooperazione ecc. Tutto ciò, secondo gli autori, permetterebbe di affrontare la presente crisi ambientale e di prospettare scenari possibili per il futuro del pianeta. Ma anche in altri ambiti si assiste a un ritorno virtuoso della lunga durata; gli autori fanno riferimento in particolare a due esempi: il libro di Graeber sul debito, che decostruisce abilmente un’istituzione fondamentale del mondo globalizzato che viene presentata come forma di potere antichissima e ripetutamente sovvertita nei momenti di cesura della storia; il libro di Piketty sulla disuguaglianza che decostruisce il falso mito del capitalismo come riequilibratore sociale attraverso una critica dell’autorappresentazione della distribuzione della ricchezza delle nazioni registrate dalle statistiche dei governi. E’ evidente che un ritorno alla grande scala pone dei problemi sul piano della raccolta ed elaborazione dei dati. Ma, sottolineano gli autori, non è la prima volta nella storia umana che ci si trova di fronte a un’inflazione di informazioni. Durante il Rinascimento, il concomitante recupero dell’antichità classica e la scoperta di nuovi continenti resero disponibile un’imponente mole di dati per trattare i quali vennero inventati gli indici, le bibliografie e altri strumenti di archiviazione e consultazione. Oggi, grazie soprattutto a internet, siamo di fronte a un’analoga crisi, ma stanno nascendo strumenti – come le paper machines sulle quali gli autori si soffermano – che permettono di esplorare rapidamente estesissimi archivi cartacei al fine di selezionare una raccolta di documenti ragionevolmente consultabili. Questo permetterà anche ai world historians, che finora hanno dovuto lavorare prevalentemente su fonti secondarie, di recuperare un diretto rapporto con gli archivi pur studiando scale geografiche e temporali molto vaste. Il valore aggiunto conoscitivo che gli storici possono dare, rispetto ad altri scienziati sociali che usano queste fonti, è la capacità di storicizzare le fonti e di trattarle criticamente e in questo modo di accostare anche serie diverse ed eterogenee di dati per svilupparne un’analisi di tipo qualitativo. Occorre, concludono gli autori, che la corporazione degli storici recuperi questa ambizione, che nelle università si promuovano politiche di reclutamento atte a valorizzare questo tipo di competenze e che gli storici si mettano in condizione di comunicare con maggiore efficacia i risultati del loro lavoro, sfruttando le potenzialità della comunicazione visuale e scrivendo testi che catturino l’interesse generale sulle grandi questioni del nostro tempo. Solo così si può restituire centralità civile alla storia e mettere in essere una global public history che interroghi la lunga durata per illuminare gli scenari futuri.
  1. Credo che l’elemento più debole di tutta la costruzione di Armitage e Guldi sia proprio quello al quale essi sembrano attribuire la maggiore rilevanza: vale a dire la questione della lunga durata. L’idea che un’analisi storica che si eserciti sulla lunga durata sia di per sé, anche solo potenzialmente, garanzia di una maggiore rilevanza conoscitiva rispetto a una che si limiti a un arco cronologico più limitato, mi sembra destituita di qualunque fondamento. Non solo, credo anche che questa impostazione del problema della cronologia faccia venir meno quello che ritengo invece essere il contributo peculiare della conoscenza storica, vale a dire la capacità di ricostruire il tessuto temporale dei processi sociali, culturali, economici, politici restituendone la molteplicità e il modo in cui spazio e tempo si articolano. Nonostante si insista dall’inizio alla fine del volume sulla cronologia come elemento cruciale per il rilancio del sapere storico, i due autori non problematizzano mai il concetto di tempo, lo assumono come un parametro puramente quantitativo. E’ invece evidente che lo storico si trova a dover operare su temporalità che hanno intensità molto diverse, a confrontarsi con il paradosso della “contemporaneità del non-contemporaneo” (Koselleck) e ad operare riflessivamente sul proprio sapere in rapporto ai diversi “regimi di storicità” (Hartog). Tutto ciò è cruciale per la spiegazione e l’interpretazione storica, al contempo condiziona inevitabilmente la scelta dell’arco cronologico sul quale svolgere una ricerca storica. “Cinque anni che paiono secoli”, scriveva Antonio Gramsci nel 1919 guardando agli anni appena trascorsi: difficile non riconoscere in quel giudizio una profonda intuizione sull’accelerazione del processo storico che il 1914 aveva innescato ed è legittimo che uno storico che si esercita su quel momento di accelerazione, se vuole andare in profondità, debba anche limitarsi a un numero esiguo di anni. Ciò, di per sé, non necessariamente riduce la portata della sua ricerca, al contrario, se saprà restituire quel periodo di così intenso cambiamento come momento di una discontinuità epocale, sarà invece capace di illuminare questioni ben più ampie dell’arco cronologico prescelto. Posto come è dagli autori, il problema della longue durée o della short durée mi sembra davvero banale; può essere che risponda alle necessità di costruzione retorica di un manifesto che deve agitare un messaggio chiaro, nondimeno investe la qualità del messaggio e ne va perciò rimarcata la debolezza. Il lungo e il breve sono parte di un gioco di scale che è l’oggetto stesso della ricerca storica e mi sembra assurdo dover optare per l’uno o per l’altro. L’altra perplessità, come già anticipato, riguarda il rischio del ritorno a categorie universalizzanti, che impiegate su contesti cronologici amplissimi possono oscurare differenze, conflitti, tensioni che il linguaggio storiografico dagli anni Ottanta in avanti ha contribuito a evidenziare, esplorando le gerarchie di genere, di classe, di razza che hanno intessuto la rappresentazione della storia nel corso del tempo.

Detto tutto ciò, il Manifesto è una testimonianza di grande interesse sul mondo accademico anglo-americano (su questo aspetto si vedano le acute osservazioni di Raffaella Baritono in questo stesso sito) e su come stia reagendo a delle sfide epocali che mettono inevitabilmente in discussione anche l’agenda delle scienze umane, dalla crisi della governance globale e del ruolo degli Stati Uniti in essa all’emergenza climatica della quale gli Stati Uniti – e l’occidente – sono i principali responsabili. Il Manifesto pone poi con forza alcune questioni che riguardano il mondo accademico nel suo insieme, e in particolare quello italiano, come la selezione e la rilevanza degli oggetti di ricerca e la riflessione sulla funzione civile e sociale che il nostro lavoro dovrebbe rivestire. Posto che mi sembra che in Italia ci sia la più completa indifferenza per tutto ciò, ben venga lo sprone di Armitage e Guldi a porci questo tipo di problemi.

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Mario Del Pero (Sciences Po Paris) :

La storia e il suo studio – affermano Jo Guldi e David Armitage in questo provocatorio e bizzarro “Manifesto della Storia” – hanno il potere di “destabilizzare” (73), mettendo in discussione verità spesso date per scontate e contestando le facili teleologie che altre discipline – su tutte l’economia – utilizzano per leggere la traiettoria storica che ha portato all’oggi. Interpretazioni lineari e spesso deterministiche, queste, che hanno egemonizzato il discorso pubblico, condizionando la discussione politica e determinando spesso le scelte che ne sono conseguite. Ed è contro questa subalternità disciplinare, e di riflesso anche accademica e politica, che Guldi e Armitage lanciano la loro chiamata alle armi, invocando il ritorno a uno studio della storia più ambizioso e “trans-temporale” (15), oltre che transnazionale. Un approccio capace di mostrare al decisore odierno la non inevitabilità dei processi storici e quindi la pluralità delle scelte possibili che esso si trova dinanzi. Per farlo, affermano Guldi e Armitage, bisogna trovare il coraggio di tornare allo studio di una storia grande e lunga, abbandonando un’ossessione monografica e di breve periodo (il “short-termism”), che ha dominato la disciplina e ha contribuito alla sua crescente ghettizzazione. Dentro una riflessione che si è fatta vieppiù arida e autoreferenziale, gli storici hanno finito per parlare sempre più e solo a se stessi. L’ipermonografismo, l’ossessione archivistica, la canonizzazione di standard stilistici rigidi e costringenti hanno contribuito a creare un recinto sia scientifico sia politico: lo studio della storia si è inaridito e omologato; il suo contributo alla discussione pubblica è divenuto quasi irrilevante.

Ma esiste una soluzione e questo Manifesto è lì a proporla e invocarla: il ritorno a un’ambiziosa longue durée, dolosamente abbandonata a favore di una sterile microstoria, e oggi resa possibile dalle nuove tecnologie (di cui soprattutto Guldi ha fatto uso nelle sue ricerche) e dalla possibilità di stivare, e consultare con facilità, quantità un tempo inimmaginabili di hard data: “il potere della storia di liberare” – affermano i due autori – “risiede in ultimo nella possibilità di definire da dove provengano le cose, collegando grandi processi e piccoli eventi per vedere il quadro nella sua interezza, condensando molte informazioni in una versione ridotta e condivisa” (13). Solo in questo modo la storia potrà tornare ad assolvere il suo ruolo di magistra vitae e a offrire una guida indispensabile per il futuro. Recupererà cioè un tratto che secondo Guldi e Armitage è andato perso: il “guardare all’indietro come precondizione per poter guardare in avanti” (25). Un guardare all’indietro che deve essere oggi prospettico, trans-temporale e globale: perché la “storia longue-durée ci permette di uscire dai confini della storia nazionale per confrontarci con l’ascesa di strutture di lungo periodo, di decenni, secoli o addirittura millenni”. “Solo ampliando la scala d’analisi su assi di tempo simili” – sostengono i due autori– “possiamo comprendere e spiegare la genesi dell’inquietudine globale contemporanea” (37).

Che la storia, e la storiografia, abbiano un potere “destabilizzante” questo Manifesto sembra dimostrarlo. La reazione, in particolare nel mondo anglo-statunitense, è stata intensa e talora aspra, con molti studiosi pronti a denunciare – talora con toni davvero estremi – l’inconsistenza delle argomentazioni di Guldi e Armitage e i loro numerosi  errori (un paio dei quali, va detto, a dir poco sorprendenti).

Eppure il libro alcuni meriti non marginali li ha ed è su questi che vorrei soffermarmi, prima di discutere alcuni suoi evidenti limiti e, anche, una sua palese e non sana strumentalità.

I meriti innanzitutto. Comunque la si pensi, Guldi e Armitage sottolineano una piaga della storiografia evidente e finanche parossistica, prodotta da un combinato disposto d’iper-professionalizzazione e feticismo archivistico. Troppo spesso si fa ricerca, e si scrive, in ossequio a (e condizionati da) canoni stringenti, che circoscrivono la libertà d’indagine, inibiscono l’ambizione storiografica e omologano e inaridiscono lo stile di scrittura. Sono processi consolidatisi nel tempo e che un certo, malinteso senso della peer-review ha finito per accentuare. Per questo, molte ricerche – soprattutto quelle dei giovani, che invariabilmente dovrebbero essere le più originali, innovative e coraggiose – partono immediatamente al ribasso: con l’handicap di un conservatorismo che condiziona le domande poste alla ricerca, la sua modalità di conduzione e le forme con la quale questa viene in ultimo veicolata a un pubblico di specialisti, con una dissociazione ormai ampissima tra la storia divulgativa e popolare e quella più propriamente professionale.

Questa denuncia, che io ritengo lodevole e ampiamente condivisibile, pone però rilevanti problemi nel momento in cui Guldi e Armitage definiscono sia le sue conseguenze sia i modi per farvi fronte. Il problema di tutto ciò non mi sembra la decrescente importanza della storia nella discussione pubblica e la sua irrilevanza nella cultura dei decisori politici. L’ansia presentista – legata anche all’evidente crisi delle Humanities nell’accademia statunitense – che soffonde questo History Manifesto è anzi controproducente rispetto agli obiettivi stessi che esso sembra prefiggersi, ché di tutto abbiamo bisogno oggi meno che di un forte appiattimento sul presente degli assi e dei temi di ricerca. Molto più banalmente (e modestamente) una storia troppo monografica, ossessionata da eccessi di pedanteria archivistica e priva di ambiziose domande di ricerca – che è peraltro cosa ben altra dalla microstoria per come sembrano talora intenderla Guldi e Armitage – è una storia arida, noiosa e pleonastica. Una storia incapace di confrontarsi con le grandi questioni che la storiografia, e non la politica, può e deve porsi.

Ma è proprio così? La tendenza allo “short-termism” è davvero tanto tanto marcata? Su questo, come molti recensori hanno sottolineato, Guldi e Armitage vengono smentiti dagli stessi indicatori quantitativi che essi incautamente offrono. E che mostrano come quella tendenza che essi denunciano sia stata in realtà di fatto già invertita negli ultimi tre/quattro decenni (si veda ad esempio la tabella a p.44). Su questo, dati più completi sono ovviamente necessari, ma l’impressione che si sia progressivamente andati verso una storia più ampia, globale e trans-temporale, sembra essere confermata da molti dei filoni di ricerca recenti di maggiore successo: dalla storia ambientale – e lo spazio temporale dell’Antropocene – alla storia postcoloniale, dalla centralità (talora abusata) del paradigma transnazionale a una micro-storia che è divenuta vieppiù globale (e che anzi offre uno degli strumenti potenzialmente più fecondi per provare a fare una global history, ancor oggi spesso chimerica negli obiettivi e poco più che cosmetica negli approcci).

Una longue-durée informata da preoccupazioni e obiettivi presentisti, come quella di Guldi e Armitage, pare inoltre esposta agli stessi problemi di quelle scienze sociali che utilizzerebbero l’orizzonte di lungo periodo colpevolmente abbandonato dagli storici. Una storia dalle ambizioni futurologhe è infatti una storia che si presta a farsi teleologica e deterministica. Che rinuncia in altre parole alla sua natura disciplinare nel momento in cui è investita di funzioni che non le sono proprie. Anche perché la fiducia nelle possibilità offerte dall’era digitale – discusse in dettaglio nel capitolo 4, “Big Questions; Big Data” – appare poco fondata e rimanda, per quanto surrettiziamente, a un’idea di neutralità della fonte che è espressione proprio di quella sovra-professionalizzazione precedentemente denunciata. Su ciò, le omissioni che alimentano questo ottimistico fideismo tecnologico sono davvero molte e rilevanti. Le monumentali (e crescenti) asimmetrie archivistiche – il banale fatto, cioè, che gli archivi di alcuni attori, statuali o meno, siano infinitamente più ricchi di altri – non vengono discusse. Come non sono discussi i meccanismi altamente selettivi con i quali si decide quali documenti salvaguardare e stivare e quali no (una percentuale, sappiamo, minuscola del totale dei documenti, nel caso ad esempio del governo statunitense). Quanto alla tecnologia, tutti gli esperimenti di cui disponiamo ci mostrano oggi come i meccanismi di raccolta e utilizzo di big data finora creati abbiano finito per offrire strumenti di limitata utilità per gli storici, anche perché l’enfasi sulla dimensione quantitativa pone problemi metodologici – il vaglio filologico della singola fonte rimane in fondo uno dei tratti distintivi della professione– di non poco conto. E abbiano finito per consolidare e ampliare monumentali squilibri nelle possibilità di ricerca, in considerazione degli alti costi d’utilizzo di molti di questi database; un problema che mina alla base quella democraticità della ricerca che qualsiasi “Manifesto della Storia” dovrebbe invece chiedere e sollecitare.

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Giovanni Gozzini (Università di Siena) :

Sinceramente trovo il manifesto scritto da Guldi e Armitage tanto lodevole nelle intenzioni quanto parziale e confuso nelle diagnosi e nelle proposte. L’incipit marxisteggiante («A spectre is haunting our time: the spectre of the short term») disvela ambizioni non piccole ma si addice moltissimo alla finanza di oggi e ha alle spalle una storia (di medio termine?) che origina almeno da un saggio di Berle e Means degli anni trenta dedicato alla separazione tra proprietà e management nell’industria moderna e ai diversi interessi (di lungo termine per la prima, di breve per il secondo) che ne vengono messi in campo. Oggi la remunerazione a base di stock options approfondisce quella separazione, ma su questo tornerò tra un attimo. Molto meno lo «short-termism» si addice, mi sembra, alla storiografia contemporanea. Tanto è vero che la seconda parte del manifesto è zeppa di esempi contrari. Mi spingerei però a dire che la scala temporale non è una discriminante di metodo decisiva nelle scienze storiche. Anche l’esempio cardine da cui muovono Guldi e Armitage (il Mediterraneo di Braudel) corrisponde a una scelta più di ambito geografico che non cronologico: immaginare uno spazio da sempre diviso dalla politica-religione, nel senso del Maometto e Carlomagno di Pirenne, come invece riunificato dagli scambi commerciali. La longue-durée è l’effetto naturale di una scelta di prospettiva – questa sì determinante – che antepone la vita economica a quella delle istituzioni. Allo stesso modo, ciò che avviene dopo – per molti aspetti ben sintetizzato da un saggio di Lawrence Stone del 1979 sul «revival of narrative» – è la messa in discussione delle grandi strutture e dei grandi processi (insieme ai loro attori allegorici: borghesia, proletariato…) per recuperare il senso degli individui in carne ed ossa, ivi compresi i soggetti marginali. È la storia sociale: e fin dai primi anni ottanta Judt e Eley discutono se debba includere o meno la politica. Ma si tratta ancora di una scelta di metodo che per conseguenza produce scelte di ambito temporale. È chiaro che un approccio microstorico (Menocchio o Martin Guerre) deve per forza concentrarsi su uno spazio e su un tempo ristretti, ma molti saggi che allora si rifanno a Foucault e si dedicano alle istituzioni segreganti – ad esempio – cercano di tenere insieme età moderna ed età contemporanea.

La versione che Armitage e Guldi danno di questo passaggio mi pare troppo ristretta e unilaterale: «a focus on game-theory and rational actors – in short, a retreat to the individual and the abstract, not the collective and the concrete» (p.85). Avrei qualcosa da eccepire, infatti, sull’eccesso ideologico che porta a coniugare collettivo e concreto: nell’esperienza degli esseri umani la vita è un’esperienza personale. Superare lo storicismo tradizionale del verstehen che cerca di immedesimarsi nella mente dei personaggi storici ci porta di necessità in direzione dell’erklären mettendo in gioco processi e strutture impersonali. E non è detto che teoria dei giochi e scelta razionale siano gli unici modi di rendere conto della human agency (anzi proprio non lo credo). Ma rimango convinto che la spiegazione storica debba nello stesso tempo dirci qualcosa di più rispetto a come la interpretano i protagonisti e, insieme, restituire libertà e autonomia ai soggetti coinvolti e mai (nemmeno nel lager, come ci insegna Primo Levi) ridotti a cavie tutte uguali di esperimenti dinamici condotti da forze che li sovrastano.

Il senso del cambiamento che oggi personalmente percepisco è abbastanza diverso da quello del manifesto. Per carità, i tre ambiti da esso richiamati (climate change, global governance, inequality) sono importanti e sul terzo svolgerò alcune riflessioni conclusive. Ma mi sembrano a loro volta ricompresi in un mutamento più complessivo. La globalizzazione di economia e finanza sposta di nuovo dopo 500 anni verso Oriente il baricentro produttivo del mondo. Dopo una parentesi bisecolare di dominio dell’Occidente equilibri demografici e produttivi del pianeta tendono di nuovo a convergere. Certo, gli Usa rimangono gli inquinatori di gran lunga più incisivi ma nel giro di vent’anni (short-term?) l’accesso di centinaia di milioni di cinesi e indiani ai consumi di massa prenderà il sopravvento. Gli organismi internazionali devono far posto a questa nuova realtà e l’ineguaglianza globale muta di segno (diventa riduzione delle distanze) se nel calcolo includiamo la formazione di un nuovo ceto medio in molti paesi dell’Asia. Stupisce davvero, allora, che un autore come Pomeranz (da poco ex-presidente della American Historical Association) e un intero settore di studi come la World History non compaiano affatto nel manifesto. La lista di titoli che figura in nota alle pp.149-50 comprende opere riconducibili a questo ambito di ricerca ma molto secondarie (per non dire peggio) nella considerazione degli esperti. Faccio solo un esempio. Negli ultimi vent’anni un approccio globale (di nuovo: scelta di spazio, non di tempo) legato, tra gli altri, ai nomi di Allen (citato nel manifesto ma solo per alcuni saggi preparatori sui prezzi) e O’Brien (non citato) oltre che dello stesso Pomeranz, ha modificato radicalmente il quadro interpretativo della Rivoluzione Industriale inglese. Accanto alle scaturigini nazionali dell’Illuminismo industriale ricostruite da Mokyr, hanno ripreso posto le relazioni commerciali dell’impero, le economie schiavistiche delle colonie americane, l’assassinio della manifattura indiana. Una storia molto più ampia in senso spazio-temporale di quella cui eravamo abituati. E che include vincitori e vinti: problematizzando quel senso di superiorità intellettuale e di unico percorso normativo verso la modernità che aleggiava nelle precedenti ricostruzioni di Landes.

Accanto a questo spostamento epocale (che mi pare ricollochi nella giusta prospettiva i tre fenomeni, altrimenti troppo occidentocentrici, descritti dal manifesto) metterei un processo di ridislocazione delle identità personali e collettive innescato dalla fine della guerra fredda. Il tramonto delle ideologie politiche assolute tipiche del secolo scorso (fascismo, comunismo) produce un ritorno di religioni e nazionalismi come beni-rifugio e vie di fuga da quel processo di globalizzazione che inevitabilmente mette in contatto, mischia e contrappone le culture umane. La versione che il manifesto fornisce di Huntington e del suo libro sul Clash of Civilizations (generalmente più demonizzato che letto, mi sembra) è troppo riduttiva («shaping history into a simple allegory about the triumph of the West», p.75) e forse opposta a quella molto più allarmata dell’autore. D’altra parte molta storiografia sul nazionalismo come sostituto identitario di fascismo o comunismo (a partire da Anderson di Imagined Communities) è semplicemente trascurata. È questo un campo di indagine difficilmente collocabile nella diade micro-history e macro-history (p.119) perché chiama in causa altre scienze umane come la psicologia (la personalità autoritaria di Adorno), la storia delle religioni alla Voegelin, la storia della vita quotidiana sotto i regimi totalitari e i multiformi processi di adattamento delle personalità individuali alle identità collettive indotte dal potere istituzionale. Esistono, per esempio, importanti ricerche sul campo che discutono se i nuovi capitalisti cinesi siano prodotti di una imprenditorialità individuale e familiare contadina non seppellita oppure adattamenti neocorporativi dove le strutture locali del partito interagiscono e orientano i comportamenti dei singoli. Anche il piano macro (che più macro non si può) degli spostamenti industriali su scala planetaria trova un punto di incontro con la dimensione micro della persona umana.

Ma si sa: segnare le assenze non è mai un buon modo di leggere. Veniamo allora all’ineguaglianza e alle stock options. Guldi e Armitage citano Piketty, com’era ovvio. Mi limito a segnalare che se Marx avesse fatto la stessa operazione di Piketty (contare redditi e patrimoni dell’élite più ricca) avrebbe ricavato a metà Ottocento il quadro di un’Inghilterra tipica nazione di antico regime, dominata dalla grande proprietà terriera. E non avrebbe capito niente. Il quadro disegnato da Piketty (una ricchezza che torna a concentrarsi per via ereditaria) non coglie le novità qualitative della situazione odierna che sono due. La prima è che si è rotto l’ascensore della mobilità sociale e il ceto medio perde terreno. La seconda è che la finanza ha preso le redini dell’economia occidentale (non di quella asiatica) accumulando fortune e instabilità. Il risultato non cambia (l’ineguaglianza aumenta, anche se con ritmi molto diversi, nei paesi occidentali) ma i fattori sono diversi e fuoriescono dall’ipotesi di un ritorno ai grandi patrimoni ottocenteschi formulata da Piketty. Invece di incarnare un eterno ritorno dell’uguale, il capitalismo si trasforma sotto la spinta delle crisi da esso stesso provocate: è in questa resilienza la chiave della sua vittoria. Per capire le dinamiche dell’ineguaglianza dal punto di vista delle scienze storiche, sono allora molto più importanti libri (meno mediatizzati) come quello di Reinhart e Rogoff, This Time Is Different o quello di Eichengreen, Hall of Mirrors: entrambi, guarda caso, con scale spazio-temporali molto ampie. La storia di come la finanza e il debito degli stati siano diventati i mostri di oggi è una storia istruttiva, fatta di scelte e quindi di alternative. C’è molto poco di deterministico e quindi di fatale nei processi cui oggi assistiamo, ma la loro storia non di short-term dimostra anche la loro complessità, ovviamente mai riducibile al complotto di pochi.

Ho invece paura che il focus del manifesto sia quello, un po’ troppo ideologico per i miei gusti, del nesso col futuro: «the new historians of the longue durée should be inspired to use history to criticise the institutions around us and to return history to its mission as a critical social science» (p.85). Mi accontenterei di molto meno. Il rischio maggiore che vedo e che anche il manifesto, di sfuggita, coglie (p.112) è l’eccesso di specializzazione della ricerca in tutte le scienze e non solo nelle humanities. È in qualche modo inevitabile che la crescita delle istituzioni scientifiche, delle riviste specialistiche, dei meccanismi di valutazione interna della qualità produca separazione. Ma si corre il rischio che questo apparato scoraggi il new thinking interdisciplinare (perché troppo rischioso per le carriere personali) e quindi ogni possibilità, per dirla in termini kuhniani, di riorientamento epistemologico.

Il problema dell’ineguaglianza coinvolge tanti ambiti disciplinari diversi: scuola e mercato del lavoro, percezioni dell’ordine sociale, identità individuali e collettive, formazione e scomposizione dei gruppi umani e delle loro relazioni, mobilità geografica e migrazioni, segregazione spaziale urbana, modernizzazione agricola e industriale, terziarizzazione, reti di credito e flussi di capitale, spirito imprenditoriale e culture della povertà. Non pretendo e anzi mi spaventa pensare che la storiografia possa essere il ponte tra questi diversi fronti della conoscenza. Mi basta pensare a uno studente che pone le domande giuste al suo presente e cerca con curiosità gli strumenti giusti per trovare le risposte. Non ho la stessa fiducia del manifesto in depositi di strumenti informatici dove trovare quelle risposte: anzi ho sempre trovato la parte più interessante di questo mestiere nel viaggio di esplorazione alla ricerca di nuove fonti

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Giovanni Orsina (Luiss – Guido Carli, Roma) :

Alcune delle domande che The History Manifesto pone sono giuste. Non è affatto cosa da poco, e spiega con ogni probabilità perché il libro sia stato discusso così ampiamente – oltre a giustificare il dibattito su «Ricerche di Storia Politica» al quale questo mio contributo appartiene. Di risposte a quelle domande, tuttavia, il libro di Guldi e Armitage ne dà ben poche. E le poche che dà sono poco convincenti. Se a questo si aggiunge che il volumetto è scritto con uno stile esortativo e ridondante, si comprende pure come mai tante delle reazioni che ha suscitato siano state così negative. In definitiva, non si capisce bene questo che libro voglia essere. È un manifesto fin dal titolo, certo, e le scelte stilistiche e argomentative sono quindi, legittimamente, da manifesto – con tanto di parafrasi di ben altri manifesti: «Historians of the world, unite!». È un manifesto, però, che si rivolge a specialisti – a professionisti del lavoro intellettuale abituati a leggere saggistica storica e a ragionare sulla storia. Le due cose – il manifesto da un lato, il pubblico di professionisti dall’altro – non paiono marciare bene insieme: i professionisti, tanto più intellettuali, in genere tendono a irritarsi di fronte alle ingenuità, omissioni, imprecisioni, non sequitur che caratterizzano la “forma-manifesto” in generale, e che costellano questo manifesto in particolare.

Quali sono dunque le domande giuste che The History Manifesto pone? La principale – a voler semplificare – è: a che cosa serve la storia oggi? Più di preciso, quest’interrogativo può esser scomposto in tre problemi logicamente distinti, anche se in pratica inseparabili l’uno dall’altro. Il primo, che il libro enuncia in apertura e intorno al quale in larga misura ruota, è quello dello short termism: la propensione contemporanea a ritenere che il presente basti a se stesso, e che non ci sia quindi bisogno di ragionare sul passato, tanto meno sul passato remoto, per comprenderne e affrontarne le sfide. La propensione contemporanea, per dirla in forma più brutale, a pensare che si possa fare a meno della storia. Il secondo problema consiste nella crisi del ruolo pubblico della storia: crisi per un verso conseguente allo short termism di cui sopra; per un altro all’espandersi di altre discipline – l’economia in primis –; per un altro ancora alla difficoltà per gli storici di produrre studi rispettosi delle regole della professione ma capaci al contempo di parlare a un vasto pubblico. Gli storici infine, sempre se vogliono rimanere rigorosi, si trovano in difficoltà quando si chiede loro di allargare il compasso geografico e cronologico delle loro ricerche. E tuttavia quest’estensione appare necessaria se si vuole che la storia torni interessante per il grande pubblico e riesca a contrastare la tendenza contemporanea alle visioni di breve o brevissimo periodo.

Dubito che in quest’inizio di ventunesimo secolo siano molti gli storici che non si sono posti le domande che si pongono Guldi e Armitage. Da qui con ogni probabilità – ripeto – il successo del libro. Personalmente, quelle domande me le sono poste ragionando intorno a due cesure della contemporaneità, una temporale e una spaziale – e ho intrapreso la lettura di The History Manifesto con grande interesse e con un pregiudizio positivo proprio nella speranza di trovare qualcosa su queste due cesure. Non è certo una novità che la nozione del tempo e della storia che caratterizza la modernità occidentale sia assai differente dalla nozione “premoderna” (uso questo termine, assai impreciso, per amor di semplicità), e che da circa due secoli questa mutazione abbia reso il rapporto fra passato, presente e futuro assai meno lineare di quello che si condensa nella classica locuzione ciceroniana “historia magistra vitae”. Basta rileggersi Koselleck – o, se è per questo, Tocqueville: «Le passé n’éclairant plus l’avenir, l’esprit marche dans le ténèbres». Il quesito un po’ meno ovvio è se negli ultimi quarant’anni circa non vi sia stata pure una seconda cesura: un’accelerazione ulteriore e un’ancora più marcata perdita di senso del tempo storico, tali da generare una cultura più che mai convinta che il passato non giovi a rischiarare l’avvenire. Che vi sia stata una seconda cesura – più precisamente: negli anni Settanta del Novecento – è quel che sostiene ad esempio Marcel Gauchet, in maniera piuttosto convincente, nei suoi recenti bei volumi su L’avènement de la démocratie. Seguendo questa pista si incontrano delle questioni piuttosto interessanti relative alla modernità occidentale; a quanto di rivoluzionario – ossia, desideroso di tagliare radicalmente i ponti col passato – vi sia in essa; alla sua concezione del tempo e della storia, e a dove, come e quanto questa concezione sia diversa da quelle premoderne e non-occidentali; ai tentativi che sono stati esperiti nel diciannovesimo e ventesimo secolo per ridare un senso al tempo e alla storia, ai risultati che questi tentativi hanno ottenuto e a come si siano venuti articolando nei decenni. Questo, molto in breve, per quel che riguarda la cesura temporale dell’età contemporanea. La cesura spaziale, più semplicemente, è quella relativa ai fenomeni cosiddetti di globalizzazione: al globalizzarsi dei problemi e delle soluzioni, ma anche del mondo dell’istruzione universitaria e della ricerca. Tutti processi, questi, che tendono a favorire le metodologie adatte all’“estensione” piuttosto che all’“intensità”: dati quantitativi, ampie comparazioni, categorie generali e astratte. E a sfavorire invece una disciplina come la storia che osserva molto in profondità fenomeni individuali e per tradizione è abituata a ragionare all’interno dei confini nazionali.

È da queste due cesure dunque, una temporale e una spaziale, che derivano a mio avviso le difficoltà della storia. Su questi due terreni, tuttavia, non ho trovato nel Manifesto risposte particolarmente significative. Bene, si dirà: se un libro non risponde alle tue urgenze questo non vuol dire che non sia un buon libro – magari risponde ad altre urgenze; o alle stesse, ma seguendo un altro percorso. Il punto, purtroppo, è che Guldi e Armitage non mi paiono rispondere a nessun’altra esigenza; né alle stesse esigenze seguendo un altro percorso. O meglio: una risposta la danno – ne dirò al termine di questa recensione –, ma non mi pare realistica.

Uno dei compiti principali che i due autori assegnano alla storia – e quindi una delle principali dimostrazioni della sua legittimità sociale, se non la principale – è quello di contestare e sovvertire una visione monolitica, valutativa e teleologica della modernità occidentale che a loro avviso egemonizza le scienze economiche, e secondo la quale la modernità occidentale non poteva non affermarsi, è positiva, e comunque non ha alternative plausibili. Il ragionamento col quale Guldi e Armitage sostengono questa loro tesi, però, è doppiamente incompleto. È incompleto in primo luogo perché il piano metodologico e disciplinare (la storia) e quello ideologico (la critica a una certa visione della modernità occidentale, ossia al neoliberalismo) sono due piani distinti che il Manifesto non riesce – forse neppure prova – a connettere. «Historians no longer believe in the mythology that the world was shaped dominantly for the good of economic well-being by the influence of western empire, but many economists still do», scrivono ad esempio i due autori (p. 55). Ora, ammesso pure che quest’affermazione sia vera, il libro non riesce da nessuna parte a estrarla dalla contingenza e dalla – per così dire – sociologia accademica, stabilendo un nesso logico fra il metodo storico e la critica al neoliberalismo da un lato, il metodo economico e il sostegno al neoliberalismo dall’altro. Il legame fra ideologia e metodologia, così, rimane in larga misura soggettivo: la storia e l’avversione al neoliberalismo stanno insieme perché agli autori piace quella e dispiace questo. Ma in questo modo  non abbiamo fatto il minimo passo in avanti: non è dal suo indimostrato nesso con una funzione ideologica che la storia, con la sua specificità metodologica, potrà trarre legittimità nel XXI secolo.

Il ragionamento di Guldi e Armitage è poi incompleto perché per un verso affida la funzione anti-neoliberale della storia alla sua capacità di reperire nel passato forme sociali eccentriche, minoritarie e misconosciute, e così facendo dimostrare che il neoliberalismo non è né positivo né tanto meno inevitabile; per un altro però non affronta minimamente il problema di di come e quanto quei modelli siano proponibili nella nostra epoca. Prendiamo ad esempio questo passaggio (p. 120):

Consider the longue-durée histories of Southeast Asia by James C. Scott into the deep history of the highland mountains on the fringe of Chinese Empire he calls Zomia. Zomia, he finds, is defined by the flight of people from oppressive political and economic regimes, whence they recoil into a subsistence-like existence, a trade in wild spices and roots rather than cultivated gardens, egalitarian political forms rather than hierarchical ones, a prophetic culture rather than received religion, and timeless stories rather than the recitation of history. Again, a series of micro-histories of hill-people, assembled across the centuries, becomes a powerful macro-story with which to destabilise received accounts of the inevitability of empire, centralisation, capitalism, or hierarchy.

Bene: abbiamo davvero bisogno di studiare ancora tanta storia per sapere che nel passato sono esistite comunità che vivevano in un’economia di sussistenza, con forme politiche egualitarie, una cultura profetica e leggende senza tempo? Non dico un sussidiario delle elementari, ma un buon manuale di liceo probabilmente basterebbe. Il punto insomma non è se la storia sia uno straordinario deposito delle più variegate esperienze umane: lo sappiamo tutti che lo è, non abbiamo bisogno di alcun manifesto che ce lo ricordi. Il punto, ben più profondo e complesso, è se e come queste esperienze abbiano ancora un senso per noi oggi, dopo la doppia frattura della modernità e postmodernità: come possano le micro-storie delle genti delle colline non apparire radicalmente aliene – oggetto tutt’al più d’un interesse antiquario – alle genti della globalizzazione economica e culturale e della tecnologia informatica. Se siamo davvero entrati nell’epoca in cui «Le passé n’éclairant plus l’avenir, l’esprit marche dans le ténèbres», gli storici potranno studiare tutte le culture subalterne ed egualitarie che vogliono: i loro libri non diranno assolutamente nulla agli esseri umani del ventunesimo secolo. Al massimo potranno confortare quelle minoranze di attivisti, menzionate spesso da Guldi e Armitage, che nutrono un interesse ideologico per le alternative subalterne e minoritarie – con il che, però, lo studio della storia finirebbe per ridursi a un esercizio settario, a un preaching to the converted. Del resto, a ben vedere, è un po’ questo che il Manifesto suggerisce: la storia dovrebbe servire a diffondere la “coscienza critica anti-neoliberale” al di là delle ristrette cerchie di attivisti. Un auspicio che non soltanto mi pare del tutto irrealistico, ma che a uno storico in quanto storico può interessare soltanto fino a un certo punto – il vero protagonista dell’auspicio, infatti, non è la storia, ma il progetto ideologico.

Il Manifesto esorta inoltre gli storici a scrivere storie capaci di coprire ampie distese di spazio e tempo, restando al contempo fedeli al metodo storico:

What we hope for is a kind of history with a continuing role for micro-historical, archival work embedded within a larger macro-story woven from a broad range of sources. In this way, the often shocking and informative events drawn from the lives of actual persons must continue to be a source of circumspection and critical analysis for historians, even as they take their arguments wider. It is not necessary to relate every link in the chain of a longue-durée narrative in micro-historical detail: a serial history, of richly recovered moments cast within a larger framework, may be adequate to show continuities across time along with the specificities of particular instances (p. 121).

È un’esortazione che in linea di principio mi trova d’accordo. Su come si possa raggiungere quest’obiettivo – non proprio agevolissimo da conseguire se non magari da storici già molto esperti, forniti di ipotesi interpretative ben chiare, consapevoli di che cosa cercare e dove malgrado le vaste distese spaziali e temporali che intendono coprire – il Manifesto tuttavia ci dice poco. È davvero possibile, tanto per fare un esempio, ricostruire in profondità uno specifico momento storico («richly recovered moments») senza approfondirne il contesto immediato, ma affrontandolo unicamente come l’anello d’una catena narrativa di lungo periodo? Forse – a certe condizioni e su certi argomenti – sì, ma al prezzo di dover sciogliere una quantità di nodi metodologici non banali, e rischiando a ogni passo di inciampare in anacronismi. Un’operazione tutt’altro che agevole, insomma – ma sulle cui enormi difficoltà, e su come affrontarle, il Manifesto non ci dice assolutamente niente.

Infine, l’unica vera risposta che troviamo nel libro: in un’epoca di big data gli storici – abituati a ragionare temporalmente, alla critica delle fonti, a studiare la vita umana in maniera non settoriale – dovranno svolgere al contempo la funzione di “certificatori” dei numeri («The world needs authorities capable of talking rationally about the data in which we all swim, their use, abuse, abstraction, and synthesis», p. 95), e di “ricompositori” delle diverse ricostruzioni settoriali di lunga durata (economiche, ambientali, istituzionali, culturali), fondate appunto sui big data, all’interno di un quadro complessivo. L’ipotesi è certamente innovativa e interessante, né si può pensare che le nuove tecnologie non presentino alcuna sfida per gli studi storici – ma, di nuovo, pone dei problemi metodologici sui quali il Manifesto nemmeno comincia a ragionare, e che sono a tal punto seri da lasciar dubitare che l’ipotesi sia realistica. Il problema è lo stesso che abbiamo considerato sopra: gli storici sono in grado da un lato di osservare i fenomeni da un pluralità di punti di vista, dall’altro di valutare le fonti nella loro attendibilità e completezza, proprio perché si concentrano su fenomeni circoscritti nel tempo e nello spazio. Man mano che il tempo e lo spazio si dilatano e i dati diventano grandi, queste virtù degli storici si assottigliano. Che i dati siano inaffidabili e incompleti, gli economisti (almeno quelli bravi) in astratto lo sanno eccome – basti pensare alle polemiche che si sono sviluppate sul libro di Piketty, e che si sono in larga misura incentrate proprio sull’affidabilità dei numeri. Quello che lo storico può portare in più, rispetto agli scienziati sociali, non è allora la consapevolezza generica che dei dati bisogna diffidare – ma la competenza specifica su “quei” dati particolari: chi li ha raccolti, quando, dove, come e perché; in quali direzioni la loro incompletezza, parzialità e faziosità debbano essere riequilibrate. Lo storico, insomma, può muoversi con cognizione di causa soltanto sui little data. Per altro, e sia detto per inciso, nel trasformare gli storici in “arbitri” dei dati Guldi e Armitage sembrano scivolare talvolta in una visione ingenuamente positivistica del rapporto con l’evidenza empirica: a loro avviso gli storici dovrebbero certificare il dato, potremmo dire, wie es eigentlich gewesen.

Il trade off fra estensione e profondità è un nodo metodologico a tal punto visibile da essere ovvio. Guldi e Armitage invitano gli storici a cedere alle pressioni di un’età come la nostra, che chiede estensione, ma senza al contempo perdere la profondità. È l’uovo di Colombo. Resta a questo punto priva di risposta soltanto una domanda: già, ma come?

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