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La Giornata della Memoria è ormai storia

Marco Bresciani (Università di Zagabria)

La Giornata della Memoria appartiene al passato. A prima vista questa affermazione può suonare paradossale. La funzione civile dell’appuntamento del 27 gennaio è ampiamente riconosciuta (pur non senza significative eccezioni), la sua valenza etica pubblica e la sua vitalità culturale sono sostenute da un numero costante se non crescente di iniziative, il suo passato recente sembra garantirgli un futuro promettente. Eppure, se si guarda all’Europa e al mondo di oggi, non si può non avvertire un senso vagamente anacronistico nelle celebrazioni pubbliche e nelle manifestazioni pedagogiche della Giornata della Memoria.

Frutto di percorsi legislativi e di sollecitazioni politiche e intellettuali che scandirono gli anni Novanta e i primi anni Duemila, la Giornata della Memoria è stata concepita e inserita all’interno del calendario civile in un mondo completamente diverso da quello di oggi. Il progetto europeo, consolidato dall’adozione dell’euro e dall’apertura delle frontiere, teso all’allargamento verso i paesi dell’Est e animato dalla prospettiva (presto eclissata) del varo di un Trattato costituzionale, era in piena espansione, in un quadro di relazioni internazionali segnato dal forte (anche se variamente inteso) momento unipolare americano. La Giornata della Memoria consentiva di legare il presente al passato, tentava di fungere da monito per il futuro, si proponeva di legittimare le istituzioni europee più che quelle nazionali. Questa politica della memoria era impercettibilmente legata ad una delle tante declinazioni della convinzione nella “fine della Storia”, che ha marcato il quarto di secolo successivo al 1989-1991: l’UE era vista, dalla maggior parte delle classi dirigenti continentali, come il vettore, la garanzia e il simbolo di un progresso pressoché inesorabile della democrazia liberale e del libero mercato. Beninteso, questa convinzione ha consentito di gestire la traumatica transizione post-comunista (non senza profonde lacerazioni, che nel Caucaso e nei Balcani si son trasformate in guerre civili), di garantire un’ulteriore fase di pace (perlomeno per chi stava all’interno dei confini europei), di consolidare istituzioni basate (almeno sulla carta) sul principio di responsabilità e sul rispetto delle minoranze. Al tempo stesso, le esplosioni di violenza terroristica e di pulizia etnica, nonché i conflitti regionali nell’ex-Jugoslavia, in Cecenia o altrove erano per lo più intesi come sopravvivenze residuali del passato. Gli interventi militari “occidentali” in Medio Oriente come nei Balcani, in Afghanistan come in Iraq erano di volta in volta presenti come “guerre umanitarie”, “operazioni di polizia internazionale”, “guerre per la democrazia”. In questo scenario la Shoah, attraverso la Giornata della Memoria, veniva a rappresentare, per legge, l’esempio paradigmatico del Male che non si doveva ripetere – e che in fondo, se si agiva per il rispetto legale e per l’affermazione ideologica dei diritti umani, non si poteva ripetere.

La dinamica di ripetibilità/irripetibilità che anima le politiche della memoria così come sono state concepite e praticate nell’ultimo quindicennio pare ormai inefficace rispetto al mondo del 2016. Contraddizioni e tensioni erano emerse fin da quando, nel 2008, un gruppo di paesi dell’Europa centro-orientale ha promosso il 23 agosto (data del patto Ribbentrop-Molotov) a Giornata europea per la commemorazione delle vittime del nazismo e dello stalinismo. Alla memoria della Shoah si proponeva di integrare – o se si vuole, almeno in certi casi, si contrapponeva – la memoria dei totalitarismi nazista e staliniano. Le molteplici faglie che dividevano i diversi paesi dell’UE, l’Europa “occidentale” e quella “orientale” si sono ora approfondite a seguito di improvvisi e veloci mutamenti, in cui fattori endogeni ed esogeni si intrecciano e si potenziano a vicenda. Essi sono il prodotto di contingenti crisi socio-politiche e di scelte geopolitiche strategiche, che vengono da lontano, ma che hanno trovato un impulso maggiore nella crisi economica occidentale del 2007-2009. Il discredito politico e culturale in cui è precipitato l'”Occidente”, che ha acutizzato la sensibilità pubblica per il malgoverno e la corruzione e che ha alimentato ondate successive di proteste globali nei confronti di classi dirigenti (spesso della politica tout court), costituisce una delle fondamentali precondizioni per l’odierna instabilità e i conseguenti conflitti. Le “primavere” arabe del 2011, la guerra civile ucraina insieme all’intervento militare russo, la guerra civile siriana e il connesso quadro di interventi internazionali (anglo-americano, francese, russo), il flusso dirompente di rifugiati dal Medio Oriente al vecchio continente attraverso le rotte balcaniche e mediterranee e il suo impatto dirompente sulla tenuta del sistema di libera circolazione europea, la degenerazione intermittente, ma progressiva della crisi greca e la contestazione crescente delle politiche economiche europee (tedesche), costituiscono le principali polarità, tra loro interconnesse, di questa estrema tensione globale.

Non si possono qui ripercorrere neanche per linee generali i violenti e inattesi cambiamenti che hanno riaperto innumerevoli questioni: l’eredità sovietica, che fu solo apparentemente liquidata nel 1991 e che oggi alimenta la crisi e la guerra russo-ucraina; il lascito ottomano in Medio Oriente, che fu definito dagli assetti geopolitici del 1919-1923 e che oggi precipita nel caos; il riassetto post-comunista dei paesi dell’Europa centro-orientale, che, dopo aver recuperato la loro sovranità nazionale nel 1989, cercano di difenderla dai processi di trasformazione europei e globali, insieme a quell’omogeneità culturale che fu creata dalle grandi deportazioni e dagli spostamenti di popolazione tra Seconda guerra mondiale e immediato dopoguerra; il processo di integrazione europea post-bellica, che è oggetto di crescenti recriminazioni e contestazioni da parte di stati nazionali che hanno sempre lavorato per contenere le riduzioni di sovranità. Certo, l’Europa continua a rappresentare un modello attraente, se si pensa alle manifestazioni di piazza Maidan, in cui si reclamava l’avvicinamento dell’Ucraina all’UE, o ai profughi che cercano di attraversarne le frontiere per sottrarsi alle guerre in atto e rifarsi una nuova vita. Nondimeno, tutti gli stati nazionali che compongono l’UE si trovano di fronte a sfide e pericoli (dalla crisi dei rifugiati al pericolo del terrorismo, dalla politica aggressiva russa e turca alla competizione globale) che non possono reggere da soli. Tuttavia, in un contesto di straordinaria instabilità internazionale, il progetto europeo, minacciato da molteplici focolai di crisi interni ed esterni, appare prossimo al collasso.

In che misura, e in quali direzioni, questa drammatica accelerazione dei processi storici investe la Giornata della Memoria? Perché in qualche modo la relega a storia? Per cercare di rispondere, si può partire dalle parole di tre uomini che senz’altro oggi giocano un ruolo capitale, Vladimir Putin, Benjamin Netanyahu, Recep Tayyp Erdogan, tre leader impegnati su fronti di guerra, a capo di potenze direttamente o indirettamente coinvolte dalla memoria della Shoah: il paese considerato patria dell’ebraismo, il paese considerato erede di quell’Unione Sovietica in cui si consumarono fasi essenziali della distruzione degli ebrei d’Europa, il paese considerato erede di quell’Impero ottomano in cui si consumò il primo genocidio moderno, quello degli armeni, a cui si ispirò Hitler per lo sterminio degli ebrei e che tuttora è negato, in quanto genocidio, dalle autorità turche. In un discorso a giovani storici tenuto a Mosca nel novembre 2014, poi in una conferenza stampa con Angela Merkel, nel maggio 2015, il presidente russo ha riabilitato il patto Ribbentrop-Molotov in nome dei legittimi interessi di “sicurezza” sovietica, seminando dubbi sul fatto che il patto fosse all’origine della spartizione della Polonia. In un intervento di fronte al Congresso sionista mondiale svolto a Gerusalemme nel novembre 2015, il premier israeliano ha sostenuto che fu il Gran Muftì di Gerusalemme a “suggerire” a Hitler di “bruciare” gli ebrei, che invece il Fuhrer intendeva espellere. In una conferenza stampa di fine anno 2015 Erdogan ha menzionato Hitler come esempio di un sistema presidenziale i cui “disastri” furono il prodotto di abusi di potere e di cattiva gestione.

L’insieme delle loro parole, pronunciate in situazioni diverse, suona come un esplicito tentativo di minimizzazione delle responsabilità di Hitler – quasi in forma di implicita assoluzione. Da questo punto di vista, Hitler non appare più una figura completamente bandita dal dibattito pubblico, le sue azioni possono essere oggetto di sfumature interpretative funzionali a legittimare nuovi progetti politici. Il pericolo più immediato è che le ondate di antieuropeismo, abilmente fomentate dall’esterno, ma disponibili in misura crescente all’interno dell’UE, possano cristallizzarsi in un aperto rigetto della Giornata della Memoria quale simbolo legittimante della costruzione unitaria europea, intrecciandosi così con le ampie correnti antisemite già ben presenti. C’è però qualcosa di più profondo.

I discorsi dei tre leader sono spie di mutamenti strutturali che sono intervenuti tra presente, passato e futuro, nel corso degli ultimi tempi. La Giornata della Memoria aveva un senso ben preciso in un contesto modellato ancora dalla diretta eredità politica e culturale della Seconda guerra mondiale. “Mai più Auschwitz” consentiva di pensare, o meglio induceva a pensare il futuro nei termini del passato, mettendo in guardia dalla possibilità di una sua ripetizione, senza che però si perdesse mai davvero la distinzione tra il “prima” e il “dopo” di Auschwitz. Invece, il “passato che non passa” è per molti versi passato, ed è in qualche modo consegnato ad un nuovo, imprevedibile presente. In questo quadro inedito non sorprende che un vocabolario politico tipico degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta – pronto a denunciare il declino del cosmopolitismo e del multiculturalismo, a sostenere la necessità di difendere l’identità cristiana, a glorificare le virtù della democrazia illiberale – attraversino con intensità crescente il vecchio continente dalla Francia all’Ungheria, dalla Croazia alla Polonia, dall’Italia alla Germania, dalla Grecia alla Svezia. Se il ciclo di eventi del 1989-1992 ha liquidato l’eredità del dopoguerra inteso soprattutto come Guerra fredda (ma non solo), il ciclo di eventi del 2014-2015 ha reciso ancor più importanti legami con la memoria della Seconda guerra mondiale, restituendo alla politica uno spazio ben più ampio e incognito di quanto non fosse quello definito dai criteri post-1945. E’ un processo in corso, che si articola per diversi quadri nazionali, e i cui esiti sono tuttora aperti: però è chiaro che la svolta è stata profonda e irreversibile.

Nessuno meglio di Primo Levi ha saputo dirlo, e perciò alle pagine finali dei Sommersi e salvati dobbiamo tornare. Già i testimoni come Levi, infatti, avevano percepito la memoria “come un dovere, ed insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati”. Allora come oggi, è difficile trasmettere il senso di “un evento fondamentale ed inaspettato, fondamentale appunto perché inaspettato, non previsto da nessuno”. “E’ avvenuto contro ogni previsione […]. E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo […]”.

Il vero anacronismo è dunque delineare una strada diretta e prevedibile alla Shoah, tracciare una via unica e inesorabile per “Auschwitz”. Ed è questa la sfida della memoria, in un’Europa e in mondo in cui tutto è diventato – è tornato ad essere – possibile: restituire al passato il senso di imprevedibilità del futuro.

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