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Alle origini del nazionalismo. Tavola rotonda su Benedict Anderson e “Comunità Immaginate”

Contributi di: Tommaso Detti, Daniele Fiorentino, Armando Pitassio, Carlo Spagnolo

Tommaso Detti (Università di Siena)

Non avendo la competenza per dire alcunché sull’opera di Benedict Anderson in quanto specialista dell’Asia sudorientale, mi limiterò ad alcune considerazioni sul suo libro più noto: Imagined Communities (d’ora in poi IC). Pubblicato in tre diverse edizioni (1983, 1991, 2006) e tradotto in moltissime lingue, quel lavoro è peraltro il più citato fra i libri di storia del nazionalismo e benché la sua fortuna dati soprattutto dagli anni 90 ha sollevato tanti dibattiti da impedire di renderne conto in modo adeguato in un breve intervento. Ciò premesso, a costo di apparire tautologico dico subito che a mio parere, se IC è l’opera più discussa di una vastissima letteratura comprendente studi di grande rilievo, è perché si tratta di quella davvero più discutibile: un libro tanto originale, stimolante e denso di acute intuizioni, quanto asistematico e soprattutto poco documentato. Non è dunque paradossale che IC abbia sollecitato come nessun altro libro lo sviluppo degli studi sul nazionalismo, ma spesso il fondamento di molte sue affermazioni ne sia uscito contestato.

Fra i temi al tempo stesso più innovativi e “sfortunati” dell’opera spicca quello dei «pionieri creoli». Sottrarre all’Europa le origini del nazionalismo non era cosa da poco, ma come lamentò l’A. nel 1991 «il capitolo decisivo sul ruolo pionieristico delle Americhe» cadde letteralmente nel vuoto. Esemplare fu l’atteggiamento di Hobsbawm, che pure citò IC tra le opere più importanti del settore e giudicò «stimolante» l’idea delle nazioni come comunità immaginate. Riconosciuta la necessità di approfondire la storia del nazionalismo extraeuropeo, infatti, egli precisò di essersi «principalmente applicato al secolo xix e ai primi anni del xx, quando la questione è marcatamente eurocentrica». E quando accennò al fatto che nell’Ottocento le repubbliche latino-americane erano «il maggior insieme di Stati indipendenti al di fuori dell’Europa», si limitò a notare che a lungo esse «suscitarono ben poca attenzione salvo che negli Stati Uniti, sicché il nazionalismo, in quest’area, era considerato una specie di facezia ruritana» (Hobsbawm 1990, 6, 55, 177).

Per quanto l’ottica di Hobsbawm fosse anch’essa discutibile, di fatto quell’intuizione di Anderson aveva ben pochi riscontri e la cosa non sorprende, considerato che egli stesso si sarebbe dichiarato «unable to read Spanish in 1983» (IC 1991a, xii: chi sa perché il brano non compare nella traduzione italiana). Ciò nonostante dagli anni 90 il suo lavoro ha esercitato sui latino-americanisti un’influenza difficilmente sopravalutabile, anche se poi le sue tesi ne sono state spesso messe in discussione (Miller 2006). Ciò che mi sono sempre chiesto, però, è perché l’A. datasse la nascita delle nazioni dal 1776 ma si focalizzasse soprattutto sull’America Latina, riservando relativamente pochi accenni agli Stati Uniti. E sì che per Anderson nel 1789 «l’esplosione del nuovo mondo riecheggiò nel vecchio con lo scoppio improvviso della rivoluzione francese» (IC 1991b, 192). Direi che la risposta risieda nell’anti-imperialismo dell’A., che peraltro nel 2006 motivò la sua polemica nei confronti degli Stati Uniti in primo luogo con il loro carattere «more reactionary than its Southern sisters» e con il loro «remarkable solipsism» (IC 2006, 210).

Con tutto ciò l’idea dei «pionieri creoli» rimane a mio avviso l’aspetto più innovativo dell’opera. Ciò non vuol dire che le tesi sullo sviluppo della stampa (il così detto print-capitalism) e delle lingue volgari che frammentarono la cristianità fossero prive di significato, ma ad esse era connessa l’idea più discutibile del libro: che le nazioni divenissero immaginabili non solo con il declino delle comunità religiose e dei «regni dinastici», ma soprattutto quando al «tempo messianico, una simultaneità di passato e futuro in un presente istantaneo», subentrò un «tempo vuoto e omogeneo» misurato da orologi e calendari (IC 1991b, 40). Al riguardo l’A. si richiamò più riprese a Walter Benjamin, la cui visione era però radicalmente diversa: «L’idea di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile dall’idea che la storia proceda percorrendo un tempo omogeneo e vuoto. La critica all’idea di tale procedere deve costituire il fondamento della critica all’idea stessa di progresso» (Benjamin 1997, 45). Anderson aveva invece una concezione storicista e progressista del tempo «omogeneo e vuoto» come tempo della modernità, centrata appunto sul nazionalismo (Kelly 1998; Wollman, Spencer 2007).

Il fatto è che nazionalista Anderson lo era senza alcun dubbio. Oltre alle sue tradizioni familiari irlandesi, a sostegno di ciò sono state addotte molte citazioni da IC e da altri suoi lavori. Per brevità io rinvio solo a una recente intervista in cui, alla domanda se fosse «a little nationalistic», egli rispose: «Yes, absolutely. I must be the only one writing about nationalism who doesn’t think it ugly […]. I actually think that nationalism can be an attractive ideology. I like its Utopian elements» (Anderson 2005). Non a caso IC mostra una profonda ostilità per l’«ufficial-nazionalismo», sorto come risposta reazionaria ai movimenti nazionali popolari ottocenteschi allo scopo di mantenere il «potere dinastico» e volto a «russificare» i grandi imperi poliglotti entro i quali stavano nascendo nazioni (IC 1991b, 95-96, 117). Né è un caso che ai suoi occhi il nazionalismo non si radicasse «nella paura e nell’odio per l'”Altro”»: «Le nazioni – scriveva – suscitano amore, e spesso amore pronto al sacrificio» e per lui il razzismo aveva origine «in ideologie di classe, più che in quelle di nazione» (ivi, 145, 152).

Al di là di questo, la sua è una teoria generale basata sull’assunzione di un preciso modello originario e «piratabile» di nazionalismo, che a suo parere si sarebbe diffuso dappertutto con la decolonizzazione e con il crollo di Stati multinazionali come l’URSS e la Jugoslavia. Anche qui, peraltro, non sono state poche le critiche rivolte al suo lavoro, a partire da quelle degli studi postcoloniali, riassunte da Parta Chatterjee con queste parole: «If nationalisms in the rest of the world have to choose their imagined community from certain “modular” forms already made available to them by Europe and the Americas, what do they have left to imagine?» (Chatterjee 2012, kindle locc. 4791-2). Si potrebbe commentare che il polemico intento originario di Anderson, quello di de-europeizzare la storia del nazionalismo, si è infine risolto in una sua occidentalizzazione.

Molto rimarrebbe da dire su altri aspetti della sua opera, dal rapporto nazionalismo-etnicismo al così detto long-distance nationalism alimentato dalle migrazioni di massa e dalle moderne tecnologie della comunicazione, alla plausibilità dell’autolettura che Anderson fece di IC come di un tentativo di «combine a kind of historical materialism with what later on came to be called discourse analysis; Marxist modernism married to post-modernism avant la lettre» (IC 2006, 227). Ma forse è soprattutto il caso di ribadire la straordinaria fecondità di questo libro, di cui Anderson aveva ragione di congratularsi, anche se inevitabilmente «a writer loses his/her book at the moment that it is published and enters the public sphere» (ivi, 228).

Opere citate e riferimenti bibliografici essenziali

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Daniele Fiorentino (Università Roma Tre)

Benedict Anderson, dopo aver speso buona parte della sua attività di ricerca nel sud-est asiatico, nei primi anni ottanta del Novecento elaborò una riflessione su un modello di comunità valido per realtà diverse e applicabile ovviamente ai paesi che studiava ma anche al mondo euroamericano in cui  operava: “Se le nazioni-stato sono considerate “nuove” e “storiche”, -scriveva in Comunità immaginate– le nazioni a cui danno espressione politica affiorano sempre da un antichissimo passato e, cosa ancora più importante, scivolano verso un futuro senza limiti. È la magia del nazionalismo il trasformare il caso in un destino”(p. 32). Nello stesso anno  Hobsbawm, nella sua introduzione a L’invenzione della tradizione, osservava che la priorità non è tanto nella antichità di quel passato quanto nel significato che assume per coloro che ci si dovrebbero riconoscere. In linea con l’analisi di Anderson aggiungeva poi: “Comunque sia, laddove si dà un riferimento ad un determinato passato storico, è caratteristico delle tradizioni «inventate» il fatto che l’aspetto della continuità sia in larga misura fittizio. In poche parole, si tratta di risposte a situazioni affatto nuove che assumono la forma di riferimenti a situazioni antiche, o che si costruiscono un passato proprio attraverso la ripetitività quasi obbligatoria” (pp. 4-5).

È abbastanza evidente come, nello scrivere Comunità immaginate, Benedict Anderson avesse in mente non solo i popoli e le culture del sud-est asiatico, ma anche il mondo occidentale in cui era vissuto tra Irlanda, Gran Bretagna, e gli Stati Uniti d’America, suo paese d’adozione. Biografia e bibliografia si intrecciano a formare una personalità di studioso complessa e articolata nella quale si combinano esperienze personali e scelte professionali. Il discorso vale naturalmente per tanti altri studiosi, ma nel caso di Anderson questo è particolarmente significativo poiché la sua analisi sulla concezione dello stato-nazione nell’immaginario collettivo di una comunità è legato alla sua ricerca tra Indonesia e Thailandia, dove ritrova parametri applicabili anche ad altre nazioni, comprese quelle europee, sebbene declinati in modo diverso. Nonostante la sua impostazione di studioso marxista, peraltro concentrato sulle vicende di paesi socialisti, egli trova nel concepimento di una comunità coesa su base nazionale un senso di appartenenza e condivisione capace di tenere insieme identità diverse che si riconoscono in un comune discorso di origine e scopo. Anderson ha così lasciato a politologi e storici una riflessione profonda sul senso dell’appartenenza, della formazione e identità dello stato-nazione, dei suoi cittadini. Comunità immaginate ha fornito un’impronta teorica e analitica da cui la storiografia anglo-americana in particolare ha ricevuto un impulso di cui ancora oggi, a trent’anni di distanza, si vedono i frutti.

Qui merita sottolineare due punti importanti sollevati da Anderson che altri studiosi a lui contemporanei lasciavano spesso sullo sfondo: l’ipotetico “scivolare” (forse meglio “planare”, in inglese “glide”) delle nazioni-stato verso un futuro senza limiti, e il destino. Entrambi sono entrati a far parte, come fattori di identità collettiva della comunità statunitense nell’analisi degli storici e dei politologi tra fine XX e inizio XXI secolo. Il tempo  storico viene trasmutato in un passato mitico che sta a fondamento di un’identità condivisibile da gruppi umani bisognosi di riconoscersi in un logos comune pur non avendo necessariamente legami effettivi. Così gli Stati Uniti tra fine XVIII e inizio XIX secolo fecero ricorso alla ricostruzione mitica di una comunità particolare, quella dei Padri Pellegrini peraltro spesso sovrapposti ai Puritani, come nucleo degli antenati fondatori. Si trattava di  concepire un passato condiviso e accettabile di un moderno stato-nazione che, faticando a trovare una sua identità unitaria si è proiettato in un futuro mitico ma con lo sguardo rivolto all’indietro, per dirla con Benjamin, per affermare la propria esistenza come comunità e compiere il destino della nazione di proiettarsi sul continente e diffondere il modello della “civil body politic” mutuato dal puritanesimo. Soltanto così i membri di questa “comunità immaginata” potevano riconoscersi in un insieme di valori e figurazioni condivise senza per questo conoscersi o avere in comune esperienze o sapere. Ovviamente il discorso può essere applicato anche a stati-nazione che hanno ricostruito un passato comune non necessariamente condiviso da tutta la popolazione ma che faceva parte dell’immaginario della classe dominante o di quel gruppo di individui intenti a costruire la fabbrica nazionale.

Ricorrendo a tal proposito a Sacvan Bercovitch in Rites of Assent, si può dire che gli Stati Uniti hanno adottato dalle comunità puritane quell’essere una comunità in continua ridefinizione e proprio per questo esente dalle abituali restrizioni nazionali di genealogia, territorio e tradizione (p. 85). Ciò non significa tuttavia che i parametri di un nazionalismo civico non siano altrettanto immaginati di quelli di terra o di sangue. Resta il fatto, come sottolinea Rogers Smith, della necessità politica di costituire una comunità di popolo che abbia il senso della sua appartenenza e consideri l’interesse di tutti gli esseri umani di fare parte di una “ragionevole” e sostenibile comunità politica, anche se la lezione da tenere a mente è che la mancata adozione di parametri politici nella costruzione della nazione può produrre una complicità moralmente responsabile di forme distorte di comunità nazionale (p. 474).

Per questa ragione a inizio XXI secolo uno dei più incisivi storici statunitensi, Gary Gerstle, in American Crucible ha fatto ricorso all’elaborazione teorica di Anderson, confortato dalla riflessione su nazione e modernità di Liah Greenfeld, cosciente del fatto che uno studio della storia statunitense non potesse prescindere da due fattori identitari fondamentali: nazione e razza, entrambi costruzioni astratte delle società umane e al tempo stesso fondamento identitario della modernità politica. Il libro di Gerstle in realtà ricorre a una differenziazione fondamentalmente binaria delle forme del nazionalismo negli Stati Uniti del XX secolo: un nazionalismo civico basato su adesione e consenso dei membri della società, e un nazionalismo razziale che “concepisce l’America in termini etnorazziali”(p. 4). Per questo l’autore riconosce il suo debito verso Anderson il cui studio fornisce gli strumenti per analizzare le nazioni, e quella americana in particolare, come “…entità politiche e culturali inventate il cui potere risiede non solo nell’acquisizione del controllo di un territorio ma anche nell’abilità di guadagnarsi la fedeltà e l’affetto delle numerose ed eterogenee popolazioni che risiedono all’interno dei suoi confini” (p. 11). Le nazioni, continua Gerstle, in quanto create attraverso un artificio ideologico hanno finitezza spaziale e temporale, e poggiano la loro solidità e continuità su elementi che possono essere tanto razionali ed empirici, ma creati da chi “fa la nazione”, quanto mitici o emotivi. Questo, scrive Eric Foner in un testo diventato famoso anche nella sua traduzione italiana, Storia della libertà americana, richiede che lo spazio entro cui si colloca l’analisi di una comunità non si limiti ai suoi confini geografici ma prenda in considerazione anche quelli mentali (p. 12).  Christopher Bayly da parte sua ha visto soprattutto nell’emergere di comunità nazionali create dall’interazione di capitalismo e stampa il contributo fondamentale di Anderson alla comprensione della diffusione del modello stato-nazione anche a comunità molto distanti dallo spazio atlantico in cui era stato originariamente concepito (p.189).

Nel 2003, in uno studio seminale sull’identità che mette a confronto i concetti di nazionalismo, cosmopolitismo e universalismo americani, Jonathan Hansen dà ormai per globalmente acquisita la definizione di comunità immaginate fornita da Anderson (p.198). Partendo da quell’assunto spiega così la coesistenza di un “nazionalismo organico” e di uno repubblicano ovvero di un’appartenenza su base geografica ed ereditaria e di una su base volontaria, entrambe comunque fondate su un riconoscimento collettivo di una comunità in base a parametri variabili capaci di dar vita quindi a gruppi identitari volta a volta diversi. La teoria sul nazionalismo di Anderson ha dunque fatto scuola e rappresenta un punto di riferimento per qualunque storico anglo-americano si avvicini allo studio dello stato-nazione e dell’identità.

La definizione è ormai a tal punto condivisa dalla comunità accademica internazionale che il suo parametro viene applicato anche da sociologi, storici e politologi alla ricerca di una definizione o ridefinizione delle nuove comunità in formazione nello spazio globale e cosmopolita. Nel 2011, Ulrich Beck e Daniel Levy hanno così incrociato la comunità globale di rischio di Beck con la comunità immaginata di Anderson per definire una “re-immaginazione della nazionalità” che ha luogo nel contesto di norme globali, mercati globalizzati, e migrazioni transnazionali. Di questo nuovo approccio, influenzato anche dagli studi culturali e post-coloniali, hanno fatto tesoro due importanti volumi sulla storia degli Stati Uniti che hanno ricollocato il consolidamento dello stato-nazione nel suo contesto transnazionale e non eccezionalista: A Nation Among Nations di Thomas Bender, e The Cause of All Nations di Don Doyle. A prescindere dalla posizione geopolitica o dalla storia di singole comunità dunque, i caratteri distintivi del senso di appartenenza nazionale hanno attraversato confini per riproporsi, su diversi scenari locali, in un mondo globalizzato e transnazionale, senza perciò perdere le loro caratteristiche finite in uno spazio-tempo necessariamente delimitato dalla forma politica in cui sono state create. Ciò non ha impedito però che il nazionalismo e il suo immaginario conservassero caratteri distintivi rimanendo solidi poiché si fondano ancora su quella commistione di elementi che consentì l’affermazione di una comunità nazionale immaginata tra fine Settecento e inizio Novecento.

Breve bibliografia:

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Armando Pitassio (Università di Perugia)

Conoscere le motivazioni alla base della stesura di Imagined Communities di Benedict Anderson risulta fondamentale per comprendere da un lato il contenuto e lo spirito dell’opera, dall’altro il suo successo. Un’opera discontinua e frammentaria al suo interno, più di quanto appaia a prima vista, e ricca oltre che di interessanti suggestioni, di inesattezze e approssimazioni, dovute alla passionalità  che presiede alla sua stesura. Una passionalità che spiega in parte anche il suo largo successo. Le motivazioni profonde  risiedono da un lato nella forte carica antimperialista che caratterizzò la vita, prima che la produzione scientifica, di A., dall’altro dalla dolorosa presa di coscienza di un convinto marxista che la solidarietà nazionale prevarrebbe sulla solidarietà di classe o ideologica. Fino alla fine degli anni Settanta Anderson non si occupa di una teorizzazione del nazionalismo. Nato in Cina, formatosi in Inghilterra a Cambridge, approdato come ricercatore negli Stati Uniti alla Cornell University, si interessa come storico e come antropologo alle vicende del Sud-est asiatico e, segnatamente, all’Indonesia e alla Thailandia. Il suo impegno politico antimperialista lo porta a partecipare ventenne alle manifestazioni contro l’intervento anglo-francese in Egitto del 1956 e a guardare poi con simpatia al movimento di liberazione nazionale indonesiano e al successivo nazionalismo indonesiano in funzione antimperialista, ma la sua formazione marxista lo spinge a denunciare i terribili massacri indonesiani del nazionalista Suharto  ai danni dei comunisti nel biennio 1966-1967, tanto da essere considerato persona non gradita in Indonesia per circa un ventennio. Per lui, nato da padre anglo-irlandese e madre inglese e con parenti stretti coinvolti nelle lotte in Irlanda, la spinta a riflettere sul fenomeno del nazionalismo non deve certo mancare. in realtà, fino alla fine degli anni Settanta egli si limita ad un’implicita valutazione positiva del nazionalismo, laddove questo si opponga all’imperialismo, o negativa, quando serva ai gruppi dirigenti ad assoggettare le masse popolari, come nel caso indonesiano dopo il 1966.

La spinta prepotente ad occuparsi in modo più approfondito del nazionalismo gli viene data dai conflitti che contrapposero nel biennio 1978-1979 i paesi comunisti di Viet-Nam, Cambogia e Cina: per Anderson «Queste guerre sono di rilevanza storica e mondiale in quanto sono le prime tra regimi la cui indipendenza e le cui credenziali rivoluzionarie sono innegabili …» e nessuno, neppure i protagonisti, pensa si possano interpretare come compiute in nome del “socialismo”, come era avvenuto nel passato per l’Ungheria del 1956 o perfino per l’Afganistan del 1980. (p. 21). In questa affermazione c’è tutta l’amarezza del marxista che scopre come la forza della solidarietà nazionale rimanga intatta anche all’intero del campo comunista, sicché «Solo i più ottimisti [mia sottolineatura] oserebbero scommettere che negli anni finali di questo secolo un qualsiasi scoppio di conflitti internazionali troverà necessariamente l’URSS e la RPC (per non parlare degli stati socialisti più piccoli) a sostenere e combattere per la stessa parte» (ibidem). Così scriveva nel 1983, prendendo coscienza che il nazionalismo in quanto «scomoda anomalia per la teoria marxista … è stato eluso più che affrontato» (p. 23). Da qui l’esigenza di fornire “un’interpretazione più soddisfacente dell’«anomalia» del nazionalismo”, di quanto non sia stato prodotto sia in campo liberale che marxista (p. 23), e che dà vita alla prima edizione del suo libro (1983). Con liberali, come Mises (1919) o Kohn (1944)., o marxisti, da Bauer (1907) a Hobsbawm (1962), condivide l’idea che nazioni e nazionalismo siano un frutto della storia recente dell’umanità, datandola alla fine del ‘700, non raccogliendo quindi gli spunti che gli potevano provenire dallo studio di Armstrong (1982) sull’esistenza delle nazioni prima del nazionalismo. Da tutti loro si distingue però per la totale indifferenza verso il ruolo esercitato dalla Rivoluzione francese nello sviluppo dell’idea moderna di nazione, così come appare non apprezzare il collegamento che Gellner introduce tra industrializzazione e nazionalismo. Ritiene che il nazionalismo nasca con la crisi della religione e dello stato dinastico, ma evita accuratamente di ricordare che proprio in Europa nella rivoluzione francese e prima ancora in quella inglese, come ricorda Breuilly (1982), il “popolo” si fa “nazione” strappando la sovranità a una nazione precedentemente limitata al sovrano e ai corpi che davano vita allo Stato. Come scriveva alla vigilia della Rivoluzione francese l’Advocat Général di Luigi XVI Ségurier «Il clero, la nobiltà, le corti sovrane, i tribunali inferiori, i funzionari addetti a questi tribunali, le università, le accademie, le compagnie finanziarie, le compagnie commerciali, tutti … gli attuali corpi dello stato che uno può considerare come gli anelli di una lunga catena, il primo dei quali sta nelle mani di Vostra Maestà, in quanto capo e sovrano  di tutto quello che costituisce  il corpo della nazione». Senza le due rivoluzioni inglese e francese che con il passaggio della sovranità dal re e dai corpi dello stato al popolo segnano la nascita della nazione moderna risulta difficilmente spiegabile la nascita delle repubbliche nelle colonie inglesi e spagnole delle Americhe.

Ma A., spinto da un forte sentimento polemico verso l’eurocentrismo, colloca nella nascita degli stati “creoli” delle Americhe la prima manifestazione del nazionalismo, polemizzando implicitamente anche con “l’industrialista” Gellner con il quale pur condivide, assieme a Hobsbawm, l’idea dell’invenzione (o per dirla con A. “l’immaginazione”) della comunità nazionale. Giustamente A. rileva come il fattore della differenziazione linguistica sia stato assente nella nascita delle nazioni americane, che sono invece debitrici da un lato alla differenziazione amministrativa (i vicereami di Nuova Spagna, Granada, Perù e la Plata, per non parlare del Brasile portoghese),dall’altro alle difficoltà o meno di comunicazione tra di loro: forti per i vicereami dell’America latina, molto minori per le colonie britanniche affacciate tutte sull’Atlantico. A., condizionato evidentemente dalla sua polemica contro l’eurocentrismo che assume qui i toni di antioccidentalismo, si astiene di estendere questa interessante osservazione anche alla nascita delle diverse identità nazionali all’interno dell’area linguistica inglese (dall’Australia al Canada, dalla Nuova Zelanda al Sudafrica ecc.): d’altronde di fronte all’attenzione che dedica alla nascita delle repubbliche nell’America latina ben poca è quella per la nascita, pur precedente, degli Stati Uniti d’America. Il ruolo delle istituzioni amministrative che con i loro confini, anche all’intero di uno stesso stato, contribuiscono alla formazione delle identità nazionali non è sconosciuto neppure in Europa: è sufficiente pensare alla separazione tra Danimarca e Norvegia con la codificazione di due diverse lingue, oppure alla distinzione tra sloveni e croati, dovuta in primo luogo al far parte entrambi dei domini asburgici, ma gli uni dei domini ereditari, gli altri del regno di Ungheria, con il risultato finale che si pensò a dar vita a due lingue diverse.

A. non estende però questa osservazione all’Europa che invece presenta come la terra di elezione di un nazionalismo “popolare” fondato sulla comunità linguistica. Non si accorge così che, se la comunità nazionale può essere immaginata attorno all’istituzione-lingua, propria di comunità dove si è sviluppata attraverso i secoli una ricca letteratura, come in Italia o in Germania, si danno i casi, come scriverà la Thiesse (1999), che attorno all’esistenza di una nazione, immaginata, ad esempio, attorno all’istituzione-chiesa, come per serbi e croati. bulgari e irlandesi, verrà costruita una lingua. A differenza di quanto scrive Breuilly il nation-building non è detto che avvenga soltanto all’interno dell’istituzione statuale.

A questi due tipi di nazionalismi, quello repubblicano nato oltre-Atlantico e quello linguistico-popolare nato successivamente in Europa dopo il 1815 (ma, curiosamente, A., fa riferimento anche ad un nazionalismo ungherese nella seconda metà del Settecento e agli scritti del greco Adamantios Koraes del 1802) (pp. 86-87) A. affianca un terzo tipo di nazionalismo, l’ufficial-nazionalismo. Se i primi due tipi avrebbero un segno positivo, il terzo, nato nell’ambito del vecchio stato dinastico minacciato dai moti popolari nazionali sviluppatisi in Europa dopo il 1821 e che consiste in una “miscela di nazione e impero dinastico” (p. 99), avrebbe un segno decisamente negativo e sarebbe servito in seguito ai ceti conservatori per mantenere nelle loro mani il potere e per giustificare la loro volontà imperiale. Anderson rifiuta quindi la distinzione avanzata a suo tempo da Hans Kohn  tra un nazionalismo razionale e realistico, fondato sul trasferimento della sovranità al popolo e quindi sulla cittadinanza, ed un nazionalismo irrazionale, incentrato sul concetto di Volk, comunità depositaria dei miti del passato e dei sogni del futuro. Una distinzione riproposta da Kedourie (1960) tra un nazionalismo repubblicano di origine kantiana e un nazionalismo organico di origine herderiana o, in tempi più recenti, da da Liah Greenfeld (1992) tra un individualistic civic nationalism e un collectivistic nationalism. Anderson preferisce questa tripartizione che da un lato con la sua introduzione del modello di nazione americano gli permette di soddisfare la sua polemica verso il dominante eurocentrismo che collocava nell’Europa la nascita della nazione moderna, dall’altro con il modello di ufficial-nazionalismo può stabilire una connessione stretta tra ambienti conservatori e aspirazioni imperialiste. Questi tre modelli si sarebbero imposti tra l’Otto- e il Novecento in tutto il mondo, vuoi puri, vuoi mescolati tra loro. Ma questa affermazione appare un po’ zoppa se Anderson stesso ammette che «Il modello dell’ufficial-nazionalismo diventa rilevante soprattutto quando i rivoluzionari prendono il controllo dello stato e sono per la prima volta in condizione di usare il potere per i propri fini» (p. 168). E questo forse gli sarà servito per spiegargli anche le ragioni delle guerre nella penisola indocinese alla fine degli anni Settanta. Guerre cui non deve essere stato estraneo quel sentimento di odio per l’altro che Anderson, sulla scorta di qualche citazione di poesie patriottiche, ritiene del tutto estraneo al nazionalismo, ma di pertinenza esclusiva del razzismo con cui il nazionalismo non dovrebbe mai essere confuso (pp. 151-161). Ora è vero che Giusti ha scritto Sant’Ambrogio, ma è anche vero che nel Gorski vijenac [La corona dei monti], testo sacro del nazionalismo serbo, Petar Njegoš esalta il massacro dei musulmani, in quanto altro da sé.

Nel testo si fa riferimento all’edizione italiana dell’opera di B. Anderson, Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma, 1996

Opere citate e riferimenti bibliografici essenziali

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Carlo Spagnolo (Università di Bari)

Quando apparve “Imagined Communities”, nel 1983, pochi in Italia conoscevano Benedict Anderson e certo lo scrivente non era tra loro. Dato il successo del libro si seppe presto che a differenza di suo fratello minore Perry, storico, autore di un fortunato volume comparativo sullo Stato moderno in Europa, attivo nella “New Left Review”, e noto studioso di Gramsci, Benedict Anderson non aveva bazzicato le università italiane e aveva fatto la sua carriera accademica negli Stati Uniti. La prospettiva di Benedict Anderson era principalmente quella delle istituzioni comparate che, intrecciata ad una lettura interdisciplinare della politica indonesiana, e ad una conoscenza diretta di lingue e culture asiatiche considerate prima periferiche, gli aveva dato accesso all’insegnamento a Cornell. La combinazione tra quell’approccio comparato e lo spostamento dello sguardo dal partito alla nazione, partecipe di un generale sommovimento delle scienze sociali le cui origini si possono probabilmente  datare alla seconda metà degli anni Settanta, fu tra le ragioni del successo internazionale della sua tesi che faceva del nazionalismo un fenomeno moderno,  e di estensione mondiale, tale da coinvolgere qualsiasi individuo. Nella estensione del concetto, non priva di rischi di confusione, era anche la ragione dell’interesse che suscitò.

Se  volessimo retrospettivamente spiegare il successo così vasto del libro nelle università occidentali, che è l’unico campo su cui le mie limitate competenze possono spingersi, forse dovremmo partire dall’osservazione da cui esso prendeva le mosse, ossia la “prospettiva di incombenti guerre globali tra Stati socialisti” (edizione italiana del 2009, p.17). Le pagine introduttive della prima e della seconda edizione sono illuminanti per cogliere le matrici dell’indagine e il suo sviluppo, ma anche l’humus culturale da cui esso scaturiva, che andrebbe scavato in modo specifico, e che a titolo di esempio collegherei al dibattito attorno alla “New Left Review” sul marxismo e soprattutto sulla crisi politica delle sinistre che al marxismo si richiamavano.

Penso si possa ragionevolmente ipotizzare che Benedict fosse a conoscenza del lavoro teorico di suo fratello Perry, il quale a partire da posizioni riformatrici era approdato a lidi radicali e trotzkisti negli anni Settanta, lidi dai quali aveva mosso una personale critica della lettura di Gramsci prevalsa sino allora in Italia. L’elaborazione di Gramsci, all’inizio degli anni Settanta, stava rapidamente emergendo come risposta teorica alla evidente difficoltà di ogni determinismo sul crollo inevitabile del capitalismo, in quanto offriva più chiavi di lettura  sulla autonomia della politica dall’economia, sul ruolo della società civile, sul rapporto tra partiti e movimenti, che erano in quel momento questioni brucianti per i movimenti giovanili degli anni Sessanta e post-sessantotteschi. Così scriveva Perry Anderson nel 1976:

Today, no Marxist thinker after the classical epoch is so universally respected in the West as Antonio Gramsci. Nor is any term so freely or diversely invoked on the Left as that of hegemony, to which he gave currency. Gramsci’s reputation, still local and marginal outside his native Italy in the early sixties, has a decade later become a world-wide fame. The homage due to his enterprise in prison is now— thirty years after the first publication of his notebooks—finally and fully being paid. Lack of knowledge, or paucity of discussion, have ceased to be obstacles to the diffusion of his thought. In principle every revolutionary socialist, not only in the West—if especially in the West—can henceforward benefit from Gramsci’s patrimony. Yet at the same time, the spread of Gramsci’s renown has not to date been accompanied by any corresponding depth of enquiry into his work.  [1]

In quel momento, l’Eurocomunismo era in ascesa tra i partiti comunisti dell’Europa occidentale ed era guardato con grande attenzione anche negli Stati Uniti. Per i comunisti europei, Gramsci offriva una terza via tra le rigidità del materialismo dialettico leninista e staliniano, e le secche del riformismo socialdemocratico, da sempre giudicato subalterno al capitalismo liberale.

Anche attraverso Perry Anderson, che interveniva contro ogni lettura gradualista e riformistica della prospettiva eurocomunista, e insisteva su irriducibili “antinomie” gramsciane, la discussione internazionale su Gramsci verteva sulla inadeguatezza di una strategia politica basata sulla  “guerra di posizione” che non avrebbe tenuto conto delle funzioni politiche dello Stato nel disciplinamento sociale.  Quella lettura di Gramsci magari soffriva di qualche semplificazione filologica, ma rifletteva le speranze utopistiche di una parte dell’intellettualità anglo-americana che guardava all’Italia come ipotesi possibile di un socialismo in ambito capitalista. La storia sembrò dare ragione alla critica radicale con la sconfitta dell’eurocomunismo davanti alle sfide del governo di economie in grave crisi inflazionista, che misero il PCI in grave imbarazzo davanti alla sfida terroristica e alla nascita del Sistema monetario europeo. Se il riformismo comunista era in difficoltà, la inadeguatezza dei miti rivoluzionari si rivelò immediatamente nel 1979, quando la sconfitta elettorale del Labour avvenne sul terreno di una politica anti-inflazionista che era intervenuta sulla contrattazione ma non sulle politiche monetarie e quindi aveva costretto per anni a sacrifici in nome della compatibilità capitalistica. Quella linea aprì la strada a Margaret Thatcher e all’avvento di una nuova destra molto determinata a cancellare i vecchi bastioni della classe operaia inglese.

Il Labour, che non seppe stimare la novità e l’ampiezza della svolta impressa dal nuovo governo, guardava al passato e attendeva un nuovo fallimento dei conservatori, come avvenuto al governo Heath del 1971-74. In area britannica, fu Stuart Hall a richiamare il rilievo delle analisi di Gramsci per capire le novità del governo Thatcher, e a insistere sull’impiego di categorie culturali piuttosto di quelle strettamente economiche che dominavano il dibattito del Labour e delle Trade Unions. [2]

Hall, che notava l’emersione di un populismo autoritario in Inghilterra col National Front, un partito reazionario dotato di collegamenti col neofascismo italiano che ebbe alle politiche del 1979 oltre 190.000 voti, e di un radicalismo piccolo-borghese attorno alla Thatcher, coglieva attraverso il vocabolario di Gramsci l’avvio di una fase del tutto inedita,  analoga per portata a quella in cui era maturato il fascismo. Non ne era chiara l’origine né la natura, il termine di globalizzazione ancora non era diffuso, ma Hall rilevava che dentro la sinistra laburista, il passaggio dalla rappresentanza della classe alla difesa dell’interesse nazionale mutava la funzione del partito politico di massa. Quest’ultimo, sotto la retorica dell’interesse nazionale, aveva smesso di contestare la libertà del capitale e avrebbe invece assunto funzioni di disciplinamento del suo elettorato, in nome della compatibilità tra inflazione e crescita.  Si sarebbe potuto obiettare a Hall che il primato dell’interesse nazionale sull’ideale socialista era tutt’altro che una novità, il Labour lo aveva adottato già nel 1946-48 allo scoppio della guerra fredda, ma nella congiuntura degli anni Settanta il Labour party non aveva più promesse di un nuovo orizzonte, come alle origini del Welfare, mentre distribuiva tagli e doveva persuadere il suo elettorato della loro necessità. L’identità tra interesse nazionale e intervento statale a sostegno del mercato neutralizzava il conflitto, cancellava lo spazio culturale dei partiti di sinistra, e lasciava così alla Thatcher la rappresentanza del popolo, soggetto indifferenziato e separato dallo Stato (nel quale si rinserrava la sinistra).  Hall aggiungeva che lo Stato si stava svuotando, perché nelle politiche scolastiche e nella politica economica si stava affermando un discorso individualista, che minava le identità collettive e rivalutava invece il monetarismo di Milton Friedman e della scuola di Chicago.

Il mutamento di orizzonte che avvenne tra 1979 e 1980, a cui contribuirono il successo di Reagan e le scosse al dominio sovietico in Polonia e in Afghanistan, proiettava il discorso della nazione  prepotentemente nel dibattito politico,  mentre si consumavano il rapporto tra classe e nazione che aveva permeato positivamente le democrazie postbelliche e il compromesso tra “Smith all’estero e Keynes in patria” su cui era stato possibile costruire dei sistemi capitalistici fordisti mediati dall’intervento statale.

Un tornante  viene imboccato da una parte larga dell’intellettualità “di sinistra”,  con un allontanamento rapido dal marxismo di molti studiosi e la ricerca di chiavi di lettura che sfuggissero all’economicismo precedente, recuperando Gramsci soprattutto per le sue categorie illuminanti nell’analisi culturale. Non va considerato casuale se nel 1978 appare Orientalism di Said, e nel 1982-1983 apparivano molti saggi innovativi sulla storia del nazionalismo.[3] Rispetto a quegli studi, centrati sul caso europeo, il lavoro di Benedict Anderson si staccava nettamente dalle letture più politiche e immediate di Gramsci, mentre cercava più indietro, prima del socialismo, le ragioni della sua sconfitta internazionale.

Imagined Communities offriva con sorprendente chiarezza una risposta alla crisi delle sinistre marxiste davanti alle novità annunciate dal discorso rozzo ma esplicito dell’individualismo liberal-conservatore di Thatcher e Reagan. Eliminando la classe come fattore di identità collettiva, Benedict Anderson si interrogava eminentemente sulle ragioni della crisi del socialismo antimperialista su scala mondiale. Come scriveva l’A. nella introduzione alla prima edizione, “incombe su di noi una radicale trasformazione del marxismo e dei movimenti marxisti”, ossia le guerre tra Vietnam, Cambogia e Cina, che dissolvevano qualsiasi idea di una possibile comunità socialista dei paesi liberati dall’imperialismo occidentale.

Conflitti tra paesi socialisti – a partire da quelli tra Unione Sovietica, Jugoslavia e Cina – erano emersi dalla metà degli anni Cinquanta, e su “Nuovi Argomenti” prima e  nel memoriale di Yalta poi Togliatti aveva già puntato lo sguardo sulle loro conseguenze deleterie per il movimento comunista, ma Anderson innestava su quella osservazione una spiegazione implicita delle ragioni per cui il socialismo aveva fallito nei paesi ex-coloniali.[4] La carenza di legami sociali “immaginati” della stessa portata e intensità di quelli nazionali avrebbe condannato il socialismo alla sterilità. Il socialismo avrebbe fallito nella costruzione di legami internazionali per il postulato di un deterministico superamento del nazionalismo.  Anzi, ne avrebbe trascurato il carattere potenzialmente progressivo e la dimensione emancipatrice (quello che lui chiama empowerment).

Così un termine tabù nel linguaggio delle sinistre europee, segnato dalla lotta al fascismo sciovinista, veniva rivestito di un significato storico potenzialmente positivo: veniva meno la distinzione tra nazionalismo e patriottismo, cara per esempio all’azionismo italiano. Da quel punto di partenza aveva preso avvio una ricerca oltremodo originale sul nazionalismo e sulle sue funzioni antropologiche. La forza della proposta stava tutta nell’aggettivo “immaginato” che risuonava di echi gramsciani e thompsoniani e dava una precisa diagnosi della crisi del socialismo: “non esiste una tomba all’ignoto Marxista o un cenotafio dei liberali caduti”.[5]  Se era venuta meno la comunità immaginata del socialismo,  si poteva almeno indagare sulle ragioni per cui non aveva attecchito?

Benedict Anderson fu in realtà ambiguo sull’estensione della categoria di nazionalismo che impiegava in un duplice senso. Per un verso, il nazionalismo era una categoria idealtipica, che definiva un lungo processo storico di costruzione di identità collettive, il cui contenuto era eterogeneo e poteva evolversi anche politicamente. Per un altro esso era assunto come oggetto storico concreto, vera forma moderna dell’identità sociale, spesso pre-esistente allo Stato, della quale bisognava ricostruire le vicende e le differenze specifiche. Nel primo caso, si trattava di un concetto teorico, che non poteva esaurire la concreta analisi delle sue dinamiche storiche, nelle quali avrebbero potuto anche emergere connotazioni “socialiste” del nazionalismo; nel secondo esso identificava un carattere antropologico mondiale della modernità, basato sulla surroga del legame religioso, rispetto  a cui il socialismo non si sarebbe mai misurato né mischiato. Quando Benedict Anderson scrive che il nazionalismo rappresentava “una scomoda anomalia per la teoria marxista”, indica la propria preferenza per la seconda accezione .

In retrospettiva, mi sembra che la sua lettura  trasferisse sul nazionalismo il mancato superamento del capitalismo che aveva attanagliato il dibattito marxista degli anni Sessanta in Europa.  Così come aveva sbagliato sul crollo inevitabile del capitalismo, il marxismo aveva sbagliato anche sul disfacimento del nazionalismo che stava invece risorgendo. Imagined Communities offriva una risposta in chiave culturale a quella anomalia, guardando,  come aveva fatto Lenin, alle periferie più che al centro del capitalismo e quasi rovesciando le tesi di Wallerstein sull’economia-mondo.  La acuta sottolineatura dell’importanza delle forme di comunicazione affermatesi tra sec. XVIII e XIX – quello che lui chiamava print capitalism – si accompagnava ad un’analisi delle istituzioni sociali delle nuove élites più che delle dinamiche capitalistiche da cui esse dipendevano.  La sua navigazione aggirava così lo scoglio statunitense, che pur generando il termine ad quem del nazionalismo nel 1776,  dovette apparirgli troppo casuale, troppo poco “immaginato” per produrre un proprio modello davvero alternativo a quelli imperialistici europei.

L’inversione tra la formazione della nazione e il sentimento “nazionalista”, poco perspicua per casi europei importanti come la Francia e la Germania, era funzionale a trovare anticipazioni e autonomi sviluppi nelle Americhe settecentesche, e ad includere l’Asia nello stesso trend generale.

Nella sua definizione del nazionalismo, si intuisce lo sforzo di trovare un minimo comun denominatore globale: una “comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente limitata e sovrana”. In senso stretto, si poteva includere però qualsiasi fenomeno politico statuale, con qualche rischio di confusione tra statualità, nazionalismo e ideologie politiche. La tesi di Anderson che il nazionalismo fosse un fenomeno storico globale si articolava in una tassonomia descrittiva di quattro differenti tipi di nazionalismo, quello “creolo” originario; quello linguistico “europeo”;  un terzo, ufficiale-dinastico; un quarto novecentesco, africano e asiatico, che assemblava i tre precedenti. Questo schema, che intrecciava cronologia e geografia, descriveva più che spiegare: rispetto alle tesi di un Gellner, era meno stringente il requisito della lingua o almeno di un codice condiviso come caratteristica della comunità nazionale, mentre i confini culturali del nazionalismo erano segnati dalla secessione da un dominio più vasto. Tuttavia è chiaro che nell’assemblaggio novecentesco, e solo in quello, poteva esserci uno spazio per il socialismo.

Quell’impianto del libro, che mette al centro il nazionalismo antimperialista dei paesi ex-coloniali, non si misurava con l’interrogativo  se il socialismo “immaginato” fosse una forma fallita di identità collettiva in continuità o in rottura col nazionalismo, quanto con la legittimazione di élites politiche mediatrici della modernità.  Anderson ci ha insegnato che la costruzione di legami comunitari non può avvenire esclusivamente dall’alto e ha così lasciato una traccia per affrontare l’interrogativo sulle ragioni culturali della rapida liquefazione dell’ internazionalismo socialista, per quanto egli lo abbia accantonato a favore di una indagine che intendeva prendere sul serio il nazionalismo in sé.

Forse è per questo che mentre Hobsbawm, Hroch e Gellner guardavano con qualche distacco alle sue preferenze terzomondiste, il libro trovò lettori molto oltre gli storici, nelle scienze sociali dei cinque continenti, a cui offriva un modello di riferimento “creolo” nel quale potevano starci sia l’America Latina che l’Asia. Molti spunti se ne potevano trarre attorno all’esplosione di nuove forme di comunità politiche e di nuove forme di sovranità nella crisi degli Stati nazionali. In cerca del nazionalismo, Benedict Anderson aveva indicato una pista per la comprensione di aspetti centrali della globalizzazione, e credo in questo paradosso stia il suo lascito principale.

Note

[1] P. Anderson, The Antinomies of Gramsci, “New Left Review” (NLR), 1/100, November-December 1976. Cfr. idem, Ambiguità di Gramsci, Roma-Bari, Laterza, 1978.

[2] S. Hall,  The Great Moving Right Show, “Marxism Today”, January 1979

[3] Cfr. J. A. Armstrong, Nations before Nationalism, University of North Carolina Press, 1982; John Breuilly, Nationalism and the State, Manchester: Manchester UP, 1982, Ernest Gellner, Nations and Nationalism, Ithaca, Cornell UP,  1983; M. Hroch, Social Preconditions of National Revival in Europe. A comparative Analysis of the social composition of patriotic groups among the smaller European nations, Cambridge: Cambridge UP, 1985; E. Hobsbawm, T. Ranger (eds.), The Invention of Tradition, Cambridge UP, 1983; Anthony Smith, The Ethnic Origins of Nations, London: Basil Blackwell, 1986.

[4] Mi sia consentito di rinviare a C. Spagnolo, Sul Memoriale di Yalta. Togliatti e la crisi del movimento comunista internazionale (1956-1964), Roma, Carocci, 2007.

[5] B. Anderson, Comunità immaginate, trad.it., Roma, Manifestolibri, 1996, nuova edizione 2009 (da cui si cita), p. 31.

Bibliografia

Anderson, Comunità immaginate. Origine e fortuna dei nazionalismi, pref. Marco D’Eramo, Roma, Manifestolibri 20062 .

Brubaker, Ethnicity Without Groups, Cambridge, MA: Harvard University Press, 2004;

Il piccolo, il grande e il piccolo. Intervista di Giovanni Levi, in “Meridiana”, 10, 1990, pp. 211-234.

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