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The Myth of the Strong Leader: Political Leadership in the Modern Age. Recensione di Fabrizio Tonello

Archie Brown, The Myth of the Strong Leader: Political Leadership in the Modern Age, London, Bodley Head, 2014, pp. 466.

Recensione di Fabrizio Tonello

Il 2016 è stato l’annus horribilis per il Partito repubblicano negli Stati Uniti, conquistato dall’esterno da un ambizioso miliardario che ha vinto le primarie per le elezioni presidenziali grazie a un’unica dote: la capacità di proiettare un’immagine di strong leader. Trump, preso sul serio dai commentatori politici sostanzialmente solo quando tutti gli altri partecipanti alle primarie erano usciti di scena, ha certamente delle doti di showman fuori dal comune ma questo non fa che confermare quanto l’Italia rimanga un laboratorio politico dove si anticipano tendenze che altrove faticano ad emergere: Berlusconi prima e Grillo poi erano già anni fa perfetti esempi di leader che istintivamente capiscono quale sia la chiave comunicativa adatta ai loro tempi e al loro pubblico.

Trump ha adottato uno stile che trasmetteva un unico messaggio: «io sono un leader forte, gli altri sono dei mollaccioni». Ciò che ha sorpreso, divertito e scandalizzato gli americani ben educati, (la misoginia, gli attacchi agli altri candidati per le loro caratteristiche fisiche o intellettuali oppure l’esibizione dei suoi successi negli affari) era in realtà un linguaggio culturalmente coerente, diretto ai lavoratori bianchi a basso reddito. Questa costituency, da lungo tempo abbandonata dal Partito democratico, tendeva a votare repubblicano pur disprezzando i dirigenti del partito: Trump ha offerto un veicolo per le loro ansie e frustrazioni presentandosi come un leader forte in mezzo a un gruppo di sissies (una vernice di omofobia aggiungeva efficacia al registro comunicativo scelto).

Dobbiamo concluderne, con Bernard Manin, che «la personalizzazione delle scelte politiche ha conferito un ruolo preminente alla personalità e all’immagine dei leader»? (Manin 2014). Non tutti gli studiosi sono d’accordo: Archie Brown, per esempio, non crede all’influenza decisiva dei leader sui risultati elettorali e nel suo libro The Myth of the Strong Leader cita numerose ricerche in materia. Per esempio, John Kennedy vinse le elezioni del 1960 con un vantaggio di appena 119.000 voti ma questo non fu il risultato della sua giovinezza, fascino ed eleganza messe a confronto con un Richard Nixon dall’aspetto trascurato, sciatto e sfuggente: come ha scritto Anthony King, citato da Brown, «Kennedy vinse perché era il candidato del Partito democratico in un anno in cui i democratici erano quasi certi di riconquistare la Casa Bianca, quanto meno perché una sostanziale maggioranza relativa di elettori americani si identificava con il Partito democratico».

Nel 2008, per quanto Obama fosse un candidato eccezionalmente carismatico, va detto che si votò dopo otto anni di presidenza repubblicana, con un paese stanco delle guerre all’estero (come si era visto già nelle elezioni del 2006 quando i democratici avevano riconquistato la maggioranza nel Congresso) e, soprattutto, nel mezzo della crisi economica più grave dal 1929. Con ogni probabilità, i democratici avrebbero riconquistato la presidenza (rubata loro nel 2000 quando Al Gore aveva ottenuto oltre mezzo milione di voti popolari più di George Bush) anche presentando come candidato Hillary Clinton, Joe Biden, John Edwards o uno sconosciuto qualsiasi.

Se l’importanza del leader non è decisiva nei sistemi presidenziali, cosa accade nelle democrazie parlamentari? Brown cita l’affermazione di Tony Blair: «ho vinto tre elezioni» nel 1997, 2001 e 2005 e mostra il suo scetticismo osservando che, nel Regno Unito, in varie occasioni un partito ha vinto le elezioni quando la popolarità del suo candidato alla carica di primo ministro era minore di quella del candidato avversario (per esempio nel 1970 e nel 1979, elezioni entrambe vinte dai conservatori). Brown poi sottolinea che la prima vittoria di Tony Blair, nel 1997, avvenne dopo quattro vittorie consecutive dei conservatori e con una percentuale di voti minore di quelle ottenute nelle elezioni fra il 1945 e il 1966, comprese quelle in cui i laburisti avevano perso, mentre i conservatori ottenevano il loro peggior risultato del secolo. Nel 2005, i laburisti vinsero di nuovo ma con poco più di 9,5 milioni di voti, due milioni in meno di quelli ottenuti da Neil Kinnock nelle elezioni in cui era stato sconfitto dai conservatori, nel 1992.

La tesi di Brown è che sostanzialmente gli elettori votano per il partito, non per il leader, anche se in tempi recenti la volatilità elettorale è cresciuta. Questa è anche l’opinione di Cohen, Karol, Noel e Zaller che in un libro dal titolo esplicito, The Party Decides, sostengono che l’enfasi dei media sulle primarie nasconde un ruolo assai più concreto e decisivo da parte dei due maggiori partiti americani (Cohen et al., 2008).

Le argomentazioni di Brown e Cohen sono solo parzialmente convincenti: da un lato vediamo le affermazioni di outsider come candidati, McCain nel 2008 e Trump nel 2016 negli Stati Uniti ma anche Jeremy Corbyn in Gran Bretagna nel 2015. Dall’altro in Francia, in Germania, in Italia, possiamo constatare con Mauro Calise che «la personalizzazione incide su tre fronti. Il primo, strettamente istituzionale, riguarda il rafforzamento dei poteri del primo ministro all’interno della compagine governativa. Il secondo interseca il piano istituzionale e quello elettorale, attraverso il consolidamento del primato del leader/premier nei confronti del proprio partito. […] il terzo fronte di costruzione del primato monocratico, quello della legittimazione diretta, con la trasformazione del circuito elettorale in un canale costante di dialogo tra leader e opinione» (Calise, 2016). Anche Wolfgang Streeck ha messo in luce come Angela Merkel abbia agito del tutto al di fuori dei normali canali istituzionali nel decidere l’ammissione di centinaia di migliaia di profughi siriani in Germania, esclusivamente in rapporto con una pubblica opinione commossa dalle immagini televisive (Streeck, 2016).

Se il dibattito sul peso del leader nei successi del partito rimane quindi aperto, il libro di Brown fornisce invece ampio materiale su una questione assai più chiara: al contrario di quanto sostiene l’opinione prevalente (e in particolare i giornalisti politici) i leader forti, nel governare, sono un danno e non un vantaggio. Prima di tutto, tendono a ignorare le conoscenze degli esperti nella materia di cui si discute e a fidarsi del proprio «istinto». In secondo luogo, evitano le discussioni franche e aperte con colleghi e funzionari che possano sollevare obiezioni e proporre approcci differenti. In terzo luogo, sono spesso preda di un narcisismo che li fa guardare al mondo come un palcoscenico dove possono agire a loro piacimento anziché come un luogo dove ci sono problemi complessi da risolvere in modo pragmatico.

Brown sottolinea giustamente come questi difetti siano più accentuati e visibili nei leader autoritari che in quelli democratici e nelle scelte di politica estera che in quelle di politica interna ma i problemi di fondo rimangono la mancanza di discussione approfondita e l’eccesso di fiducia in se stessi (qualsiasi riferimento a Matteo Renzi che vuole «usare il lanciafiamme» all’interno del suo partito è puramente casuale: il libro di Brown è del 2014). A questo si potrebbe aggiungere che la degenerazione dei partiti ha sottratto ai governi la preziosa risorsa di dirigenti che si erano formati all’interno di un lungo e impegnativo cursus honorum, sostituendoli con un personale politico spesso superficiale e ignorante, il che aumenta la tentazione del leader di circondarsi di yes-men. Questo è naturalmente più visibile in paesi con istituzioni più deboli, come l’Italia, rispetto ad altri con sistemi politici più strutturati e solidi, come la Germania, ma le disastrose performance di Hollande in Francia (che neppure arriverà al ballottaggio nelle presidenziali del 2017) o di Cameron in Gran Bretagna (che ha fatto uscire il paese dall’Unione europea e potrebbe provocare la secessione della Scozia) dimostrano che il problema è più esteso e strutturale di quanto si creda.

Un interessante contributo sui motivi per cui molti leader sono «ciechi» alla complessità dei problemi arriva dal libro di Gillian Tett, The Silo Effect. Seguendo Pierre Bourdieu, Tett mostra come non solo l’ordine sociale ma anche le subculture etniche, professionali e perfino aziendali tendano ad apparire «naturali» a chi vi è immerso. Malgrado l’esplosione degli strumenti di comunicazione, il mondo è sempre più frammentato in tribù con credenze e rituali propri: è come se ciascuno vivesse dentro un silo e ne vedesse soltanto le pareti. Per ogni politico con posti di responsabilità è quindi difficile avere una visione d’insieme dei problemi: la tentazione dei narcisismo e dell’autoesibizione come leader «forte» non può che peggiorare la situazione e condurre a errori catastrofici.

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