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L’immagine del passato nel cinema documentario d’archivio

di Maurizio Cau

Tra i generi cinematografici che a vario titolo chiamano in causa la storia, ce n’è uno che negli ultimi anni sta conoscendo sviluppi molto interessanti. Si tratta del documentario d’archivio, costruito a partire dal recupero e dalla valorizzazione di filmati d’epoca conservati in archivi pubblici e privati. Un rapido sguardo ai programmi dei principali festival e premi cinematografici internazionali mette in luce la portata di un fenomeno degno di attenzione.

Tra i documentari in lizza ai recenti European Film Awards figuravano opere come State Funeral di Sergej Loznista (2019), un meraviglioso ritratto corale del funerale di stato di Stalin come rito pubblico collettivo, costruito interamente con materiali d’archivio girati su tutto il territorio sovietico all’indomani della scomparsa del segretario generale del PCUS, e Il varco di Michele Manzolini e Federico Ferrone (2019), un “documentario di finzione” sulla storia di un soldato italiano sul fronte russo, in cui l’uso di materiali audiovisivi pubblici e privati mette in comunicazione passato e presente, analisi storica e racconto (il film si è aggiudicato il premio per il miglior montaggio). Ancora, uno dei titoli più interessanti dell’ultima mostra del cinema di Venezia è stato Guerra e pace di Martina Parenti e Massimo Adinolfi (2020), una suggestiva analisi del rapporto tra cinema e guerra e, più in generale, della dimensione visuale del conflitto, condotto anche attraverso il recupero di materiale d’archivio e una riflessione sul valore della pellicola cinematografica come fonte storica. Proprio in questi giorni si sta concludendo, peraltro, un’edizione particolarmente ricca di Archivio aperto, la rassegna annuale sulla riscoperta del patrimonio cinematografico d’archivio curato da Home Movies (https://www.archivioaperto.it/).

C’è chi, a proposito di questa recente fioritura di documentari di found footage, ha scritto che «l’archivio è il futuro dei documentari». Può sembrare un’uscita bizzarra, ma l’idea che il futuro di un genere possa annidarsi nell’archivio, un luogo che col futuro sembra non avere molto a che spartire, è solo in apparenza una boutade. Anche grazie allo sviluppo di tecnologie di restauro e di colorizzazione digitale dai risultati davvero sorprendenti, di recente si sono moltiplicati i lavori documentari basati interamente su materiale d’archivio. Vedere il colore dei volti e delle divise dei soldati rintanati in una trincea del fronte occidentale ridefinisce il nostro rapporto con le immagini del primo conflitto mondiale e supera, per forza espressiva, molte ricostruzioni storico-letterarie e cinematografiche che di quella tragica esperienza si sono fin qui prodotte. 

Non stupisce, allora, che il cinema di found footage sia diventato uno dei più interessanti territori di sperimentazione del racconto cinematografico, dove la riflessione sul rapporto tra documentazione e finzione, tra il valore testimoniale e la componente ideologica delle immagini è condotta in forme molto stimolanti. Anche, e forse soprattutto, per gli storici.

Si potrebbe pensare che si tratti di un genere nicchia, legato a una forma di racconto cinematografico incapace di raggiungere il grande pubblico e adatto tutt’al più a una fruizione nei circuiti d’essai. Ma alcune operazioni recenti mostrano la capacità di questo singolare genere, costruito a partire dal rimontaggio di pellicole rimaste per decenni sepolte in archivi istituzionali o nelle soffitte di cineamatori, di riattivare il passato e il discorso sulla storia rivolgendosi al pubblico generalista. Di recente sono usciti tre lavori abbastanza simili, nati dal riuso di corposi e per molti aspetti sorprendenti materiali documentari, che gettano lo spettatore nel pieno di esperienze storiche di grande impatto. Un lavoro importante, seppur controverso, è They Shall Not Grow Old di Peter Jackson (2018), un film di montaggio del celebrato regista del Signore degli Anelli, nato dal recupero e dal restauro di alcuni materiali cinematografici della prima guerra mondiale; grazie a un’operazione di ricolorazione e stabilizzazione delle immagini, il film restituisce un’esperienza di visione inedita, che proietta lo spettatore nelle trincee della prima guerra mondiale come nessun film è mai riuscito a fare (si pensi al recente deludente 1917, discusso qui https://www.arsp.it/2020/05/15/giocare-male-con-la-memoria-sam-mendes-e-1917/), anche grazie agli estratti di decine di interviste ai veterani della grande guerra conservati nell’archivio dell’Imperial War Museum di Londra, che costituiscono un efficacissimo controcanto (e controcampo) delle immagini. Il documento visuale di partenza è pesantemente elaborato (e in qualche misura falsificato), per renderlo più incisivo, più realistico, più narrativo; è una sfida vinta dal punto di vista drammaturgico e comunicativo, ma con implicazioni non banali dal punto di vista della teoria e del rispetto delle fonti.

Lavori in parte simili sono The Cold Blue di Eric Nelson (2019) e Apollo 11 di Todd Douglas Miller (2019). Il primo, prodotto da Hbo, porta gli spettatori nei cieli solcati durante la seconda guerra mondiale dai bombardieri dell’esercito americano. Le interviste a nove superstiti delle missioni dell’Eight Air Force accompagnano le spettacolari immagini d’archivio, girate nel 1943 per il documentario di propaganda bellica The Memphis Belle dalla leggenda di Hollywood William Wyler, il regista di Ben Hur. Apollo 11 è per certi versi ancora più radicale, poiché non presenta interviste ai protagonisti delle vicende narrate. È il racconto della missione che portò l’uomo sulla luna, messo in scena unicamente attraverso (splendide) immagini d’archivio, girate in origine dalla Nasa e contestualizzate grazie a didascalie e riferimenti temporali, ma senza alcun commento audio aggiunto a posteriori, se non l’ipnotica musica elettronica di Matt Morton.

Nei documentari d’archivio l’incrocio tra i piani temporali segue traiettorie spesso inusuali. A rivivere sullo schermo sono brandelli di passato, che vengono proposti allo spettatore attraverso differenti registri narrativi. Nei lavori richiamati, il proposito didascalico è scartato, in nome di una fruizione più personale che chiama direttamente in causa le capacità del fruitore di dare valore a ciò che vede, inscrivendolo in un orizzonte di senso (storico). In molti di questi lavori il passato rivive attraverso il processo di risignificazione che il presente proietta sul materiale d’archivio. È un processo che ruota intorno ad alcune domande, inespresse ma latenti, che spesso sono le stesse, espresse e dichiarate, che muovono lo storico: chi ha prodotto quei documenti? Con quale scopo? per dire cosa? E cosa ci raccontano, a distanza di decenni, di ciò che è accaduto? Cosa aggiungono rispetto al racconto affidato alla ricostruzione certosina (ma inevitabilmente più fredda) proposta dalla storiografia? In questo senso i film di found footage non ci parlano solo del passato, ma del nostro rapporto con quel passato. E come accade per la migliore storiografia, ci parlano del presente.

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