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Babi Yar. I buchi neri della storia

di Maurizio Cau

Fondazione Bruno Kessler-Studi storici italo-germanici di Trento

Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi sul massacro di Babi Yar, la gola alla periferia di Kiev dove alla fine di settembre del 1941 furono assassinati più di 33.000 ebrei per mano di Einsatzgruppen della Wehrmacht e battaglioni di collaborazionisti ucraini. Tra ebrei, soldati russi, zingari, membri della resistenza ucraina e malati mentali, si stima che in quella cavità furono uccise tra il 1941 e il 1943 circa 100.000 persone. Un numero impressionante, eppure fino al dissolvimento dell’Unione Sovietica una pagina così drammatica della storia ucraina (ed europea) è rimasta ai margini del discorso pubblico e della riflessione storica. 

A richiamare l’attenzione su un passato tanto doloroso ci aveva provato nel 1961 Dmitri Shostakovich, componendo su testi di Evgenij Evtušenko una sinfonia in memoria del massacro. Quel controverso lavoro non era però bastato a rilanciare l’interesse per le persecuzioni subite dagli ebrei nei territori dell’Europa orientale e, più in generale, per la Shoah, che la storiografia sovietica continuò a considerare un evento sostanzialmente estraneo alla storia dell’URSS. 

Nell’ultimo ventennio il lavoro degli studiosi ha permesso di ricostruire con rigore le vicende drammatiche che si sono svolte nella gola di Babi Yar, divenuta in tempi recenti uno dei luoghi emblematici dell’identità ucraina e della sua memoria. Dopo il crollo dell’Unione sovietica sono sorti vari monumenti a ricordare le vite di ucraini, ebrei e rom sacrificate in quel luogo, ma senza che prendesse avvio un percorso di costruzione di una memoria condivisa; solo nel 2016 è stato istituito il Babi Yar Holocaust Memorial Center. A gettare nuova luce su uno dei massacri più cruenti del secondo conflitto mondiale arriva oggi l’importante lavoro di Sergej Loznitsa, uno dei più apprezzati registi e documentaristi europei, che in Babi Yar. Context propone un intenso viaggio nella storia, articolato a partire dal recupero di un preziosissimo materiale d’archivio recuperato scandagliando le principali istituzioni archivistiche russe e tedesche.

Il percorso artistico di Loznitsa si muove da anni tra finzione e documentario, ma è proprio nel campo del cinema del reale, e in particolare del documentario d’archivio, che il suo cinema sta conoscendo gli sviluppi più interessanti. Loznitsa sembra ossessionato dalla storia: all’occupazione nazista dell’Ucraina aveva già dedicato Anime nella nebbia (2012), tratto da un libro di Vasily Bykov, ma Babi Yar. Context rimanda idealmente a lavori come Blokada (2006), film di found footage dedicato all’assedio di Leningrado, Process (2018), raffinata riflessione sull’uso politico del cinema ottenuta rimontando il materiale d’archivio di uno dei primi processi farsa dello stalinismo, o ancora State Funeral (2019), efficacissima ricerca sui rituali e le forme di autorappresentazione del regime sovietico, colto attraverso le immagini girate in occasione dei funerali di Stato di Stalin.    

L’ultimo lavoro, prodotto su stimolo del Babi Yar Holocaust Memorial Center, nasce per rispondere a un interrogativo al tempo stesso privato e collettivo. Da ragazzo Loznitsa passava di frequente ai margini di Babi Yar, ma solo dopo aver rinvenuto per caso una lapide scoprì dell’eccidio, di cui nessuno gli aveva mai parlato. Il ricordo del massacro di decini di migliaia di persone era rimasto sepolto insieme ai corpi delle vittime e per generazioni la vicenda era stata rimossa. Di qui l’idea di recuperare un’imponente mole di materiali audiovisivi d’archivio per ricostruire il “contesto” in cui avvenne l’eccidio e per seguire il traballante destino della sua memoria. Un contesto fatto di immagini di guerra e distruzione, colonne di prigionieri, sfilate di ufficiali nazisti, morte e persecuzione. Tra le pagine più dense di un lavoro di grande intensità, alcune istantanee dell’orrore, le testimonianze dei sopravvissuti al processo condotto dall’autorità sovietica contro una dozzina di ufficiali tedeschi, la loro esecuzione allestita in una piazza gremita di persone accorse ad assistere al macabro spettacolo. Il racconto non si chiude con la definizione della verità processuale e la condanna dei colpevoli, ma prosegue mostrando il nuovo volto assegnato nel dopoguerra a quel fazzoletto di terra, dapprima inondato da liquidi industriali, quindi circondato di nuove costruzioni di una città in espansione.  

Babi Yar. Context, presentato all’ultimo Festival di Cannes, costituisce per certi versi una summa del cinema documentario di Loznitsa. Lavora sulla rilettura del passato per colmare un drammatico vuoto di memoria e di conoscenza, rivelando in forma indiretta la portata del processo di rimozione promosso negli anni dalle autorità sovietiche. Il riuso del materiale d’archivio segue uno schema già collaudato nei precedenti lavori. Al restauro del materiale audiovisivo si affianca la ricostruzione del paesaggio sonoro legato alle immagini in cui lo spettatore viene calato. La risonorizzazione così accurata e “verosimile” del materiale produce un effetto straniante, che dà profondità alle immagini e a tratti sembra in grado di accorciare la distanza col passato, presentificandolo. Si tratta di una sensazione naturalmente effimera, ma capace di enfatizzare l’azione mimetica prodotta dal montaggio. Non c’è voce off e non c’è commento, nei documentari d’archivio di Loznitsa. Solo la libertà dello spettatore di muoversi nel tempo, abitando le immagini che il passato ha lasciato dietro di sé e provando a scomporle, cogliendone l’ambiguo carico di realtà: chi ha girato quelle immagini? A chi erano rivolte? Quali emozioni hanno suscitato nei loro destinatari?

Il senso di un cinema in apparenza tanto antinarrativo sta proprio nella tecnica di montaggio, che guida lo sguardo e il pensiero del pubblico in una delicata azione di recupero e riscoperta di pagine dimenticate del passato. Per cucire i diversi materiali e incorniciarli nel loro sviluppo cronologico soccorrono varie didascalie, ma lo spettatore è chiamato a orientarsi autonomamente, interrogando quel materiale come farebbe se si trovasse nei panni di uno storico al lavoro su un pugno di tracce audiovisive del passato. 

Le immagi non sono mai neutre, tanto meno quelle conservate negli archivi. Loznitsa, da sempre attento alla componente ideologica dei materiali visuali, lo sa benissimo. I video girati dalle forze di occupazione tedesca si affiancano a quelli girati dalle autorità ucraine e sovietiche, ed è un intreccio di sguardi, di modelli di autorappresentazione e di racconto del “nemico” e delle sue responsabilità che dice molto del potere retorico delle immagini e delle liturgie tanto care alle autorità. In questo senso, il materiale recuperato da Loznitsa non si limita a descrivere fatti storici, ma rivela le costruzioni ideologiche entro cui quegli eventi si sono svolti. 

Come accade in Austerlitz (2016), lavoro di rara finezza sul turismo della memoria e sul nostro rapporto con la Shoah, in Babi Yar Loznitsa pone una grande attenzione alla stratificazione delle vicende storiche. Il film non termina con la spettacolare esecuzione dei 12 gerarchi nazisti condannati dal tribunale sovietico per lo sterminio, una scena che esprime in forma emblematica il valore politico dei rituali pubblici e la finalità propagandistica degli spettacoli di massa, ma con le immagini che descrivono il destino della gola luogo dell’eccidio. Un destino di trasformazione, che si traduce in rimozione. Il film di Loznitsa è un modo per gettare luce su un passato dimenticato, che storici, letterati e cineasti hanno contribuito negli ultimi decenni a dissotterrare.  

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