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Downton Abbey: una storia alla Ken Follett, ma meno socialista

di Stefano Battilana

Non esiste al mondo una categoria più capace di sapidi aforismi degli aristocratici inglesi: sono memorabili le loro prestazioni da antologia, a partire da Oscar Wilde, Churchill, eccetera, fino alla fiction del più tagliente personaggio di “Downtown Abbey”, la serie televisiva, giunta alla sesta stagione annuale e al secondo film nelle sale, con grandissimo successo di pubblico in tutto il mondo. Parliamo di Lady Grantham, la decana della famiglia, cui è dedicata l’intera serie, la quale, magistralmente interpretata da Maggie Smith, un’icona del cinema britannico, appare in tutte le stagioni, con il suo ineffabile spirito critico e la sua grande abilità manovriera, pur se non sempre premiata, assieme al dono di fare battute fulminanti: come quella che fa all’esordio della prima stagione, in cui rimbrotta la nuora americana, con cui non ha mai legato veramente. Ebbene, quando la nuora le chiede “Ora siamo amiche?”, la anziana aristocratica risponde con esibito cinismo: “No cara, non siamo amiche, ma alleate, il che è molto più efficace!”, rimarcando che ora hanno il comune obiettivo di salvare insieme il patrimonio di famiglia, compromesso dalla scomparsa di un erede morto nel naufragio del Titanic: il15 aprile 1912, la vera data di inizio della nostra saga.

Chiunque si appresti a leggere questo articolo, lo farà quasi certamente perché attratto dalla notorietà di questa grande serie di successo o perché ne ha visto almeno una stagione o il film conclusivo. Non molti invece avranno visto tutto “Downtown Abbey” (DA): si tratta di ben sei stagioni e due film, tutti con più o meno i medesimi personaggi, disegnati fra due mondi e appartenenze contrapposti, ma assolutamente integrati: la servitù e l’aristocrazia. Non ci sono episodi di lotta di classe, se non echi lontani, non c’è un profilo marxista dei lavoratori, spesso ben più conservatori dei loro padroni (dice il maggiordomo Carson, con tono risentito: “Nessuno mi ha mai dato del liberale!”), non c’è distanza culturale o semantica fra nobili e domestici, entrambi sono forbiti, ricchi di sfumature nel linguaggio e negli eloquenti silenzi, entrambi sono abili nel discorso, ma nessuno di loro è colto o tantomeno erudito, difficilmente si vedono  a leggere, ma solo con un libro in mano, sono infarinati di buona educazione, ma con un’istruzione sommaria. Memorabile la visita guidata per la cittadinanza, che a un certo punto la famiglia deve concedere, dietro pagamento di un biglietto, per raccogliere fondi: ebbene, grande successo di pubblico, ma gli accompagnatori, in casa loro, si dimostrano piuttosto ignoranti nel descrivere quadri antichi, scene di mitologia, ritratti di antenati: segno di un’educazione superficiale e approssimativa, appresa non in modo strutturale ma da un precettore domestico tuttologo.

La storia si snoda come un affresco della prima metà del Novecento, in cui la società vittoriana perde la propria integrità, prima umiliata dalla strage della Grande Guerra, poi sedotta dagli ambigui fasti del proibizionismo, in questa progressiva caduta dell’innocenza, che porterà fino allo scontro con l’Impero del male nazista. Come dice il titolo, DA ricorda la trilogia del Novecento di Ken Follett, con il suo succedersi di figli e nipoti, che attraversa la storia del secolo più cruento. Ma lo sguardo distaccato di Lord Julian Fellowes, l’autore, nominato poi Baronetto per meriti narrativi, è meno socialista, più tradizionale, con un pizzico di nostalgia Tory per quel fascinoso mondo perduto che le 56 puntate rendono in modo sfarzoso e filologico, con un tributo di vestiti elegantissimi, sparati impettiti, cristallerie finissime e uniformi azzimate. Del resto, la storia della famiglia ruota attorno allo stupendo palazzo nobiliare che nella realtà è il Palazzo di Lord Carnavon, la residenza avita dello scopritore dell’oro di Tutankhamon, morto poi misteriosamente nel 1923 per la “Maledizione del Faraone”, altra grande storia del ‘900, questa volta reale, ma ancora avvolta di mistero.

DA racconta questa perdita dell’innocenza della nobiltà inglese, che, da dominatrice del globo, si appresta a perdere il primato nel mondo e nella storia, passando prima dalla subalternità in Europa, in contrasto col colosso tedesco, e prima ancora dal calo di status sociale, dall’abbandono del fasto delle dimore nobiliari e delle schiere di famigli e servitori, dall’avvento dell’economia borghese e capitalistica, cui soccombeva chi non sapeva adeguarsi o, letteralmente, sporcarsi le mani con la nuova produzione agricola industrializzata. Anche per l’altro mondo, quello dei domestici, si tratta di perdita dell’innocenza: camerieri licenziati per ridimensionamento, valletti che perdono il padrone, che non ha più bisogno di loro per infilarsi il soprabito, maggiordomi disoccupati e il nuovo che avanza: meglio fare l’impiegata che la servetta in un palazzo nobiliare. Il mondo avanza (non a caso il titolo del secondo film, in uscita a marzo 2022 nelle sale, è “Una nuova era”), precipitando verso la tragedia della Seconda guerra mondiale, di cui la prima era solo un tragico preavviso: nel mezzo assistiamo ai riti di passaggio fra un mondo bucolico e luccicante (solo per i nobili) e quello nuovo, frenetico e inclemente, per tutti.

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