Recensione di Eugenio Capozzi
Quo vado? Di Gennaro Nunziante e Checco Zalone, regia di Gennaro Nunziante, Medusa Film/Taodue, 86 min., 2015.
Essere italiani è un handicap o una risorsa? E l’appartenenza europea è una salvezza da una storia “sbagliata” o una minaccia all’identità nazionale? Non è certo strano che un film “leggero”, nel solco della più classica commedia all’italiana, sollevi interrogativi di questa portata. Proprio attraverso questo genere cinematografico la società italiana ha metabolizzato nell’ultimo cinquantennio molti tra i cambiamenti storici più traumatici da essa vissuti. E Checco Zalone, ultimo di una serie di attori/autori comici venuti dal cabaret (tra cui Troisi, Benigni, Verdone e altri), si è già in passato inserito nell’attualizzazione di quella tradizione, con un suo molto personale dosaggio di spietatezza e indulgenza. Ora al centro del suo ultimo fortunatissimo sforzo cinematografico, Quo vado?, c’è proprio una meditazione – garbata ma non per questo meno inquieta – sul senso dell”italianità” in un mondo globalizzato, ed in primo luogo rispetto ad un’Europa sempre più incombente, che suscita sentimenti al tempo stesso di attrazione e ripulsa. Tanto più in un momento storico in cui tante certezze a lungo coltivate sulla way of life nazionale sono venute bruscamente meno nel lungo ventennio di crisi politica, economica, istituzionale e culturale cominciato agli inizi degli anni Novanta.
Attraverso la storia di un impiegato pubblico scansafatiche costretto ad accettare gli incarichi più ingrati pur di salvare l’idolatrato “posto fisso” il film mette in scena una doppia, speculare parodia. Da un lato, si dipinge una società italiana “drogata” per decenni dalla spesa pubblica clientelare, dalla difesa corporativa dell’impiego pubblico ipergarantito, da barocchi intrecci di familismo e clientelismo. Dall’altra, un’Europa presentata attraverso la somma dei luoghi comuni che ne racchiudono la percezione, ora anelante ora allarmata, da parte di molti italiani: la meritocrazia, l’individualismo, l’ossessione rigoristica per le regole, l’ideologia politically correct, l’ambientalismo radicale e così via.
L’Italia dell’impiegato Zalone appare come il prolungamento indefinito di una “prima Repubblica” spendacciona e particolaristica evocata tra vergogna e nostalgia, e “celebrata” ironicamente come epoca edenica nella canzone omonima, che l’attore esegue “alla maniera” di Adriano Celentano. Ma in quell’allegro bengodi ad un certo punto irrompe un ministro intento a promuovere una profonda riforma della pubblica amministrazione fondata sulla spending review e sul taglio dei “rami secchi”. Trasparente allusione all’epoca dei “tecnici” ed a quella del governo Renzi: viste tuttavia anch’esse con divertito scetticismo, come fasi di cambiamento più formale che sostanziale (gran parte dell’apparato da tagliare viene poi salvato attraverso improbabili cavilli legali).
Costretto a sradicarsi dalla sua comoda “cuccia” di privilegiato, il protagonista si ricolloca (dopo un impatto traumatico) in un contesto che più diverso non si potrebbe: in Norvegia, tra ricercatori espatriati ispirati da puro spirito di servizio, accanto ad una donna indipendente e totalmente “emancipata”. Ma egli è destinato a oscillare a lungo tra i due poli opposti, dilaniato tra la sensazione di doversi adeguare ad uno standard di convivenza più evoluto e la nostalgia per la terra natìa, forse più “barbara” ma più umana, governata da un sano buonsenso nei rapporti tra le persone e nello stile di vita.
Una lacerazione sintetizzata esemplarmente dalla frase che alla cassa di un supermercato scandinavo, dove deve acquistare solo una bottiglia d’acqua, egli rivolge all’avventrice che non vuole fargli saltare la fila: “Noi non siamo civili, ma siamo educati!”. Mentre l’irresistibile attrazione dell’eden perduto è simbolicamente riassunta nella commozione dell'”esule” davanti all’apparizione in tv di Al Bano e Romina Power (quasi “aedi” di quel passato irresponsabilmente felice) finalmente riuniti, e dalla maliziosa insistenza nella colonna sonora della loro canzone Nostalgia canaglia.
Tra i due modelli di società Zalone si sforza di indicare una “terza via” conciliatoria che salvi gli aspetti migliori di entrambi: “civiltà” astratta ed “educazione” ereditaria, legalismo rigoroso e legami stabili, individualismo meritocratico e comunità “materna”. Ma la sintesi “hegeliana” non si concretizza facilmente, nemmeno nel registro leggero e benevolo da lui scelto. Perché il conflitto evocato dalle due speculari caricature zaloniane in realtà in qualche modo interseca fin troppo lo spirito del tempo, la crescente schizofrenia emersa nell’autocoscienza italiana del ventunesimo secolo tra orgoglio e odio del “natio borgo selvaggio”, volontà di omologazione sovranazionale e rivendicazione della propria unicità.
Non a caso l’unico compromesso tra i due corni del dilemma identitario viene trovato dall’autore nella fuga dei protagonisti in un luogo “terzo”: cioè in un’Africa che per lui incarna ancora, nonostante tutto, il patrimonio simbolico dell’innocenza, della possibilità, di un futuro non del tutto scritto. E’ proprio lì che il protagonista “arcitaliano” e l’amata “arcieuropea” trovano le condizioni per sfuggire (fino a quando?) alla condanna a loro imposta dal “rompicapo” identitario. Una conclusione che appare dettata più che altro dall’esigenza del lieto fine, e lascia lo spettatore con tutti i suoi dubbi sulla possibilità di essere al tempo stesso italiani ed europei, mediterranei e occidentali, locali e globali.