Intervista a Roberto Pertici a cura di Franco Cattaneo, «l’Eco di Bergamo», 10 febbraio 2019
Italia senza Storia, con la S maiuscola, orfana di un passato trascurato. Un problema che divide gli studiosi e che tormenta anche Roberto Pertici, docente all’Università di Bergamo. Nel suo ultimo saggio, «La cultura storica dell’Italia unita» edito da Viella, cerca di dare una risposta, ripercorrendo la «storia della cultura storica» attraverso i grandi storici di ieri e di oggi, come Giacchino Volpe, Federico Chabod, Rosario Romeo, Roberto Vivarelli. La generazione dei padri.
Professore, da che parte cominciamo?
«Inizierei da una domanda: perché la Storia oggi ha un richiamo minore sull’opinione pubblica? Andando in controtendenza, ho tentato di dire questo: abbiamo avuto in Italia un’eccellente cultura storica, di livello europeo, che ha svolto una funzione importante nella coscienza del Paese, perché questi studiosi – non rinchiusi nell’accademia, ma attivi sulla scena pubblica – s’interrogavano sui grandi temi: cos’è l’Italia, l’Europa, la modernità. Nel 2019 diventa urgente riprendere questa eredità».
Nel frattempo cos’è successo?
«Tante cose. Gli storici sono quasi scomparsi dai giornali e anche quando scrivono, come Galli della Loggia o Paolo Pombeni, si preferisce definirli politologi e spesso si comportano come tali. Sembra che di storici non ci sia più bisogno. Qualche decennio fa, nella scuola e nell’università, ogni approccio – dalla letteratura alla filosofia, dalle scienze umane all’arte – era storico: sembrava l’unico possibile. Oggi non è più così: dominano altri metodi, come se le parole contassero più delle idee e dei fatti».
In questo processo, lei parla di «rottura di tradizioni».
«Ad un certo punto, fra gli anni ’70-’80, c’è stata questa specie di interruzione che non è semplice comprendere in tutte le sue componenti. È come se si fossero persi i punti di riferimento, s’è avvertito un complessivo disorientamento. Si è avuta una vera e propria crisi culturale: con la fine delle grandi narrazioni che spiegavano il mondo, siamo entrati in quella che si chiama la “postmodernità”. Dal mio punto di vista (liberale in senso lato), il tramonto dell’ideologia marxista è stato positivo, per quasi ogni aspetto. Tuttavia, s’è gettato pure il bambino con l’acqua sporca, perché paradossalmente il venir meno dell’egemonia marxista ha messo in crisi anche le narrazioni rivali, depotenziandole. È emersa così la “svolta linguistica”: agli studenti viene spiegato senza tregua che non esistono più i fatti, ma solo interpretazioni».
Con quali risultati?
«è tramontata l’idea, che per uno storico è essenziale andare a vedere “come sono andate effettivamente le cose”, cercare di cogliere la realtà, pur ricordando che le spiegazioni sono sempre provvisorie. L’esito è che la Storia è diventata spesso un esercizio linguistico: prevalgono le retoriche, le immagini, i miti, e sempre meno i fatti, le strutture, l’economia, le istituzioni. La fine dello storicismo, idealista e marxista, ha voluto dire anche la crisi della Storia come disciplina. Ripartiamo, verrebbe da dire, da Benedetto Croce e magari da Antonio Gramsci».
Le responsabilità di chi sono?
«I padri sono tanti. La società contemporanea riduce gli uomini a consumatori del presente per effetto della rapidità e dell’intensità del cambiamento. I progressi della tecnologia hanno provocato una mutazione antropologica, dando l’impressione che il mondo di ieri non sia più interessante. Tornerei, però, agli effetti della fine del comunismo. Non s’è ragionato a sufficienza sulle ricadute culturali di quella fine. È mancato un complessivo ripensamento della storia del Novecento alla luce di quel fallimento: andavano invece mutati approcci, giudizi, valutazioni. Detto questo, il filone marxista fondava la sua analisi sulla Storia, nella convinzione che questa portasse ad uno sbocco obbligato. Le ideologie avversarie davano della contemporaneità interpretazioni differenti e alternative, tuttavia anche loro si affidavano al discorso storico. Pur con profonde differenze, tutti avevano un’idea concreta di società, una politica che si legava ad un progetto e ad uno svolgimento storico. L’esaurirsi di questo approccio ha declassato la politica a gestione dell’esistente e la Storia ad uno strumento poco utile».
Le prime vittime sono gli studenti?
«Direi di sì. Il distacco dal passato, per loro, è spesso incolmabile. Bisogna sempre ricordare ai ragazzi l’alterità del passato, perché invece il mondo attuale dice loro che il progresso è infinito, una linea retta che non s’interrompe: l’importante è andare avanti, non guardarsi alle spalle. C’è, poi, una preoccupazione di tipo, si potrebbe dire, “moralistico”: gli impulsi che ricevono li portano a giudicare il passato prima ancora di capirlo. Se il mondo di ieri viene spiegato e illustrato come un insieme esclusivo di orrori e di errori, perché cercare di conoscerlo? E invece non è così. Il passato non può essere bypassato, bensì deve essere storicizzato e compreso: conserva le sue positività, sono emersi valori dispiegati e realizzati che vanno studiati per essere riscoperti. Ecco la difficoltà, il compito dei docenti. Certo, il cammino è sempre frutto di una lotta, però il conflitto di idee non dovrebbe spaventare i giovani. Invece restano perplessi dinanzi alle fasi antagonistiche della Storia, come se il presente non presentasse momenti di questo genere».
E l’impatto sulle classi politiche?
«Nella Prima Repubblica ciascuna forza politica deteneva orgogliosamente il proprio albero genealogico e i loro seguaci erano convinti di avere alle spalle una prospettiva storica, una casa comune fatta di nomi, ideali e situazioni reali. “Veniamo da lontano e andiamo lontano”, soleva dire Togliatti, ma anche gli altri leaders avevano la stessa convinzione. Ognuno aveva i propri alberi genealogici: Cavour, Mazzini, Sturzo, Cattaneo. Con lo smottamento di cui ho parlato, le culture politiche, almeno in Italia, sono diventate post-nazionali, prive di un riferimento di lungo periodo nella tradizione storica italiana. Un solo esempio: la questione meridionale era centrale per tutti i partiti e ciascuno aveva una propria ricetta. In questi ultimi decenni è scomparsa come problema nazionale e le conseguenze – in un voto che può sembrare irrazionale, ma invece è frutto di precisi bisogni e interessi – le abbiamo viste alle ultime elezioni».
Ma non trova una contraddizione fra l’emergente sovranismo e la perdita di peso dello Storia?
«In parte sì, c’è questa dissociazione almeno in Italia, in quanto non vedo nelle forze che vengono dette “sovraniste” o “neo-nazionaliste” un discorso di tipo storico, un riferimento alla tradizione nazionale. Detto che viviamo in una situazione inevitabilmente globale ed europea, resta comunque il problema delle identità culturali nazionali nel vissuto comunitario. Il “neo-nazionalismo” non mostra (almeno finora) un qualche spessore culturale, ma se Sparta piange, Messene non ride: anche le altre forze politiche non ne abbondano. C’è invece una domanda che rinvia alle radici e alle identità collettive e che si riattiva in base a interessi largamente avvertiti dai cittadini. Anche per questo ritengo che lo studioso debba scavare nel reale, in quello che ci siamo lasciati alle spalle. Noi storici, come scrivo nel libro, non siamo “schiavi di mode defunte” o eruditi polverosi. Siamo dei pensatori che riflettono sul passato nel suo rapporto col presente e viceversa. Metà del nostro lavoro si fa nella testa, non semplicemente sui documenti e per farlo occorre una “testa ben fatta”. Educarla è il compito del docente di storia».