(125 minuti, USA, dicembre 2019). Diretto da Fernando Meirelles e scritto Anthony McCarten, basato su The Pope di Anthony McCarten (2017).
Dall’elezione al papato di Jorge Mario Bergoglio col nome di Francesco il 13 marzo 2013 si sono susseguiti diversi tentativi di catturare per il grande schermo la personalità di un pontefice dalla biografia particolare ed esotica in confronto ai predecessori sul soglio di Pietro in età contemporanea: il primo papa gesuita, il primo latinoamericano. Tra questi vi sono il biografico Chiamatemi Francesco di Daniele Luchetti (2015) e il documentario di Wim Wenders A Man of His Word (2018). A questi vanno aggiunte le serie di Paolo Sorrentino The Young Pope (2016) e The New Pope (2020) che si inseriscono nel tentativo di dipingere cinematograficamente l’attuale momento di transizione del cattolicesimo che si caratterizza per una straordinaria concentrazione di momenti e personaggi in Vaticano e nella Roma capitale del cattolicesimo globale.
The Two Popes offre un tentativo particolarmente riuscito di unire eventi biografici realmente accaduti e intuizioni di fantasia che spiegano una storia particolarmente complessa da raccontare col mezzo cinematografico. Il lungo dialogo tra Benedetto XVI e il cardinale Bergoglio che intende dimettersi alla fine del 2012 non è mai avvenuto così come il film lo ricostruisce; le responsabilità di Benedetto XVI per la negligenza vaticana nel trattare lo scandalo degli abusi sessuali commessi dal clero sono in parte diverse da quelle che il film lascia intendere; Benedetto e Francesco non hanno mai consumato una pizza insieme in piedi, né hanno guardato insieme la finale dei mondiali di calcio Germania – Argentina del luglio 2014, quando Francesco era già papa e Benedetto “emerito”.
The Two Popes, nella scelta di dedicare un film alla relazione personale tra il papa che si dimette e il cardinale che lo succede, coglie la centralità non solo drammatica ma anche tragica del momento: sono in gioco non solo le scelte e i destini dei due personaggi (interpretati magistralmente da Anthony Hopkins per Benedetto XVI e Jonathan Pryce per Francesco – entrambi nominati all’Oscar 2020), ma anche forze storiche al di là del controllo di chiunque nella chiesa globale. Il punto del film non è l’accuratezza storica degli incontri e dei dialoghi tra i “due papi”, ma la capacità di cogliere la straordinarietà della transizione di pontificato tra Benedetto XVI e Francesco: il cambio di pontificato che succede a un papa che non muore, ma decide di dimettersi e di morire al pontificato (senza veramente riuscirci). Come ha confermato la recezione del film nei circoli cattolici, da alcuni percepito in modo risentito come un’operazione ostile a Joseph Ratzinger, quella da Benedetto a Francesco è una transizione che si è compiuta canonicamente e legalmente nel marzo 2013 grazie al conclave, ma che non è ancora conclusa dal punto di vista simbolico, a sette anni dalle dimissioni di Benedetto, ancora vivente.
Il film sembra offrire all’inizio una caricatura di Benedetto XVI: ma la caricatura è la cifra con cui è noto ai più l’uomo di chiesa Joseph Ratzinger. Col passare del tempo, nel film Benedetto si libera della caricatura e spinge all’empatia per una figura tragica, stretta nel passaggio da una chiesa istituzionale, novecentesca e a trazione euro-centrica a una chiesa liquida e globale. D’altra parte, il film non tace sulla parte più problematica della biografia di Bergoglio, durante la dittatura in Argentina, la “guerra sucia” che coincide con gli anni in cui il giovane Jorge (ordinato prete solo pochi anni prima, nel 1969) è a capo dei gesuiti del paese: un periodo in cui il tentativo di salvare membri della Società di Gesù dal regime necessita contatti personali tra Bergoglio e i capi militari della dittatura. Questo, insieme alla fama del Bergoglio di allora come un gesuita conservatore e ostile alla teologia della liberazione, contribuisce a creare una certa “leggenda nera” che continua fino al 2013 e fa parte della politica del conclave che lo elegge papa, successore di Benedetto XVI.
Il film è un lungo dialogo tra i due papi, in cui il resto del cast è fatto non da altri personaggi ma da luoghi che sono lo sfondo di quel teatro che è la Roma papale: lo sfondo di un passaggio traumatico nella vita della chiesa, da un’epoca storica a un’altra. Questo passaggio emerge dalle due diverse visioni di chiesa che sono evidenti nel dialogo tra i due, ma anche nei luoghi e nei simboli: un dialogo che inizia nell’hortus conclusus sotto le finestre di Castelgandolfo e pare interrompersi quando inizia il bosco lasciato crescere senza le cure dei giardinieri. I passi di tango accennati in una delle corti all’interno del Vaticano dicono della difficoltà per la chiesa cattolica romana di trovare il passo e l’equilibrio nel passaggio tra due uomini così vicini per età ma distanti per formazione e spirito. Il film è il racconto della confessione reciproca di due uomini: un dialogo che alla fine porta alla riconciliazione non solo tra i due papi, ma anche suggerisce una riconciliazione tra i due diversi stili di chiesa rappresentati da Benedetto XVI e da Francesco. E questo è storicamente l’elemento meno realistico del film.
Massimo Faggioli
Villanova University (Philadelphia)