Di Francesco Ragno (Università di Bologna)
Mentre iniziavano i preparativi in vista del Natale 2001, in Argentina crollava il sistema economico: dapprima venivano proibiti i prelievi dai conti bancari e, poi, veniva abolita la parità de lege che legava il valore della moneta locale, il peso, a quello del dollaro statunitense, il famoso principio dell’1 a 1 (un dollaro equivaleva a un peso). In pochi giorni, il calore di quell’afosa estate aveva sciolto un programma di stabilizzazione economica -avviato nel 1991- pensato per curare la grande patologia che da quasi un decennio tormentava il Paese, l’inflazione. Le proteste di quel 2001 avevano riempito le strade delle principali città dove lo Stato di diritto doveva resistere alle pressioni del feroce e distruttivo risentimento popolare e alla reazione brutale delle forze dell’ordine: morti (se ne contarono 39 alla fine di dicembre) e saccheggiamenti, assalti e repressioni erano all’ordine del giorno mentre la politica era arroccata in Parlamento a rincorrere eventi che si susseguivano troppo rapidamente. E poi lo shock: il Presidente della Repubblica, Fernando de La Rúa, politico di lungo corso, rinunciava alla carica, per meglio dire la abbandonava fuggendo in elicottero dal palazzo presidenziale, la Casa Rosada. Il fragore popolare durò poco e si scontrò contro l’immobilismo istituzionale. In una sorta di pong politico, in dieci giorni la Presidenza passò nelle mani di ben cinque figure politiche, alcune delle quali mantennero il potere solo per qualche ora. Ma la politica ha logiche e processi più complessi di un vecchio videogioco anni Sessanta.
Oggi, vent’anni dopo, l’Argentina continua a soffrire degli stessi mali: inflazione, alto debito internazionale, rischio di default. Come mai? Come mai dopo anni di crescita economica, trainata dall’aumento del volume e del prezzo internazionale delle commodities, l’Argentina non riesce a trovare una via d’uscita sostenibile dalle paludi della crisi economica? Come mai la crisi apicale del 2001 e le cicatrici da essa provocate non sono diventate un monito per la classe dirigente argentina? A ben vedere, se analizzata nel lungo periodo, l’implosione registrata in quel dicembre 2001 aveva radici ben più profonde. Derivava infatti dall’incapacità di abbandonare un modello di sviluppo economico basato sull’industrializzazione (più o meno forzata). Un modello, questo, che nel dibattito politico è stato sempre vissuto in forme antinomiche: da un lato, coloro che proponevano di proteggere i prodotti dell’industria nazionale attraverso ingenti limitazioni ai beni importati e dazi doganali insostenibili, dall’altro, coloro che rivendicavano la centralità dei beni primari esportati dall’Argentina, il cui prezzo internazionale assumeva un carattere definitorio per l’economia del Paese. Nel mezzo, poco e nulla. L’impossibilità di mediare tra queste dicotomie racconta, inoltre, le difficoltà che hanno vissuto le istituzioni democratiche dalla fine dell’ultimo regime militare (1983) ad oggi. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. E non si tratta solo delle cattive performances economiche: caduta del Pil (di 16% dal 2011 ad oggi), aumento del deficit fiscale (dal 2008 ad oggi, vi è stato un accumulo di 250 mila milioni di dollari di disavanzo fiscale) e aumento dell’inflazione (una media pari a 30,36% annuo dal 2011 ad oggi). Ai pessimi risultati economici si aggiungono gli altissimi costi sociali di questo impoverimento del dibattito politico in materia economica: si chiamano povertà (passata dal 32% del 2010 al 43,30% del 2021), indigenza (il cui tasso nel 2010 era del 8,3% toccando il 10,7% nel primo semestre del 2020).
Vi è un paradosso che ben descrive la situazione argentina: è quello del taxista. Il taxista oculato sa che non deve spendere parte del guadagno perché in un numero congruo di anni il suo taxi inizierà a dare problemi e sarà necessaria una somma di denaro molto importante per la manutenzione o la sostituzione del veicolo. Il tassista irresponsabile spende tutto il suo guadagno e, perché no, fa anche piccoli debiti per permettersi di acquisire persino beni che, a rigore, sarebbero per lui inaccessibili; quando arrivano le difficoltà o il momento di cambiare il taxi, il tassista si ritrova di fronte alla scelta di indebitarsi per acquistarne uno nuovo, oppure ‘tirare a campare’ con quello vecchio che pian piano inizierà ad avere costi di manutenzione molto alti e a consumare più combustibile di prima.
L’Argentina degli ultimi venti anni assomiglia a quel tassista. Seppur aiutata da una situazione internazionale favorevole per buona parte del periodo, nei momenti di prosperità ha utilizzato male il proprio capitale economico e politico lanciandosi in imprese velleitarie, economicamente e socialmente sterili e infruttuose. Quando la pandemia ha toccato il Rio de la Plata, l’Argentina era già economicamente piegata, con un debito internazionale e nazionale esorbitante, socialmente in crisi. Ad ora la risposta del governo è stata solo quella di aumentare i piani sociali grazie all’aumento della base monetaria del Paese. La conseguenza più elementare è stata un’inflazione che ha superato il 50% nel 2021. Le negoziazioni con il Fondo Monetario Internazionale, che detiene buona parte del debito internazionale, vanno a rilento e le probabilità di incorrere in un nuovo default continuano ad aumentare.Problemi vecchi e soluzioni ancor più vecchie, in fin dei conti. Il risultato, con tutta probabilità, sarà lo stesso delle passate crisi: svalutazione della moneta, aumento della povertà e dell’indigenza, ulteriore impoverimento della classe media, black-out rappresentativo tra classe dirigente e cittadini. Fin troppo spesso, infatti, l’epifenomeno si è scambiato con il fenomeno o, peggio, con le cause del problema. Negli ultimi anni le cause della crisi, erroneamente, sono state individuate nell’esplosione della pandemia da Covid_19 o nell’elevato debito estero oppure nella forma con cui il capitalismo internazionale si muove in Argentina e, più in generale, in America Latina. Presunte cause, queste, che fanno fatica a restare in piedi dopo un’analisi comparativa con altri contesti nazionali latinoamericani. E mentre tutti guardano il dito non interessandosi della luna, la mancanza di un modello di sviluppo oculato e sostenibile nel tempo continua ad aumentare il volume dei problemi strutturali dell’Argentina.