Maurizio Vaudagna (Università del Piemonte Orientale)
“IO sono il partito democratico” ha detto Joe Biden in campagna elettorale contro l’usuale obiezione che esso è un coacervo di interessi diversi. A seguito della gravissima sconfitta nel 2016 da parte di un populista nazionalista, che travolgeva il neocentrismo clintoniano e obamiano, Biden ha lanciato un programma opposto, con drastici investimenti pubblici, volti alla riduzione della diseguaglianza, all’equità di genere, alla riaffermazione della leadership americana nel mondo. Contro l’ortodossia conservatrice del taglio fiscale, il presidente rilancia tasse progressive su ricchi e grandi imprese, con investimenti volti all’espansione della protezione sociale, delle tutele sanitarie, e dei programmi ecologici ed energetici. È un chiaro ritorno all’eredità del governo federale attivista del New Deal e della Great Society che il centrismo clintoniano aveva abbandonato.
Con il tramonto della coalizione newdealista a fine anni Sessanta causa la stagflazione, la crisi energetica e la trasformazione del lavoro, il partito democratico entrò in una fase di incertezza programmatica che raggiunse il culmine negli anni Ottanta durante la cosiddetta “rivoluzione di Reagan,” quando ampie fasce di “Reagan democrats” nei sindacati e negli apparati politici furono un cardine delle vittorie elettorali e congressuali del presidente repubblicano, una convergenza ripetutasi con la politica di sicurezza e di intervento in Iraq di George Bush a seguito dell’attentato alle Due Torri nel settembre 2001.
Gli scandali dell’amministrazione Nixon portarono nel 1977 alla Casa Bianca l’outsider Jimmy Carter ma fu proprio allora che, con la deregulation di banche e trasporti, il partito democratico abbracciò quella versione del liberismo, che la filosofa femminista Nancy Fraser, ha definito un “neoliberalismo progressista” fondato sull’alleanza di finanziarizzazione e politiche dei diritti. Lo shock del predominio repubblicano per dodici anni (1981-1993) consolidò l’abbraccio dei “new democrats” a quel nuovo centrismo, dai cui ranghi uscì Bill Clinton, primo democratico dopo Roosevelt ad essere eletto per due turni presidenziali (1993-2001).
La lunga instabilità del partito è derivata profonde mutazioni della rappresentanza a partire dagli anni Settanta. L’intero tessuto della coalizione del New Deal era stata eroso: il declino della grande fabbrica aveva sconvolto i ranghi del lavoro industriale, mentre i sindacati perdevano iscritti. I salari del manifatturiero diminuivano capacità d’acquisto, mentre il neocapitalismo sregolato faceva emergere un mercato del lavoro duale di posti nei servizi sottopagati, temporanei, spesso svolti da recenti immigrati, contro settori di dinamismo tecnologico, con buoni stipendi per lavoratori e tecnici non sindacalizzati con competenze avanzate. La geografia produttiva del paese cambiava, con l’apparizione delle “cinture della ruggine” del manifatturiero tradizionale in declino, ad esempio negli stati dei Grandi Laghi, mentre l’operaio maschile a bassa istruzione non digeriva le rivoluzioni sociali ispirate al femminismo e al giovanilismo. Intanto la frontiera tecnologica (ma anche quella delle materie prime e dell’industria militare) si spostava verso il Sud-ovest e il Sud, e quest’ultimo abbandonava la fede democratica da quando dagli anni sessanta il partito aveva abbracciato gli obiettivi del movimento nero.
Com’è avvenuto per molti partiti di centro-sinistra in Europa, oggi il partito democratico è diventato il referente di una classe professionale suburbana, socialmente progressista, benestante e colta, ma concentrata prevalentemente nelle città delle due sponde oceaniche, quindi insufficiente a perpetuare il vecchio predominio nazionale. Ciò ha posto il partito di fronte a una complicata scelta tra i referenti socio-elettorali: puntare a una coalizione fondata sulla borghesia suburbana, le donne, i giovani sotto i quarant’anni, i neri e le minoranze, o tentare di recuperare il proletariato industriale e postindustriale, l’iconico operaio edile con l’elmetto duro, puntando sul riequilibrio della diseguaglianza dei redditi, un forte intervento economico federale, e l’attenuazione delle richieste di innovazione del costume, come fece Clinton con l’enfasi sui “valori familiari?”
Clinton aveva abbracciato la prima ipotesi, puntando sui settori a tecnologia di frontiera, sul mercato liberista globalizzato e sul taglio del welfare in anni di forte espansione economica. Obama, un “new democrat” molto legato alle elites finanziarie, malgrado gli entusiasmi per il primo nero alla Casa Bianca, aveva fatto la stessa scelta, corretta solo in parte da una più ampia spesa pubblica per affrontare la depressione del 2007-2009.
Insieme al favore delle corporations industriali e finanziarie per il taglio delle tasse, la rabbia del proletariato soprattutto maschile dell’America rurale e delle medie città, che si sentiva emarginato dal multiculturalismo progressista, vittima del neoliberismo globale, e colpito dalla crisi immobiliare del 2007-2008 mentre Clinton e Obama salvavano le banche, emerse nell’elezione nel 2016 di un outsider impresentabile come Donald Trump, quando i democratici erano sicuri di vincere. La cosiddetta “muraglia blu” democratica degli stati industriali del Midwest venne travolta dalla depressione. Il disastro era drammatico: i repubblicani prevalevano in entrambe le camere, nella maggioranza degli stati e nella Corte Suprema: la maggior vittoria repubblicana dagli anni venti. La “Terza Via” clintoniana ne usciva con le ossa rotte, appena lenite dal recupero alle elezioni intermedie del 2018. Con una parità di 50 a 50 al Senato (il vicepresidente determina la maggioranza), come ha detto Biden, “ogni senatore democratico è un presidente”, affondando la maggioranza se dissidente.
Il neo-keynesismo pubblico di Biden doveva essere la risposta alla sconfitta, creando un ponte tra proletariato deluso e classe media suburbana. Tuttavia il presidente registra enormi difficoltà, la sua popolarità è ai livelli minimi del 41-42%, il cuore del suo programma di giustizia sociale e ambientale è stato sconfitto in Congresso dalle divisioni del partito, con forti possibilità di perdere la maggioranza congressuale alle elezioni intermedie dell’autunno 2022 a favore di un partito repubblicano trumpiano percorso da vocazioni autoritarie.
Trump ha accentuato la divisione del paese, e i principali referenti elettorali del partito democratico sono spesso instabili. Nei popolosissimi New York e California i democratici godono di ampie maggioranze, ma ciascuno di essi elegge due senatori quanto il semivuoto Idaho repubblicano, e la speranza di un crescente elettorato non-bianco filo-democratico è di là da venire.
È auspicabile e forse fruttuoso rinverdire un’altra eredità del New Deal accanto all’equità sociale e ambientale: una difesa assertiva della democrazia liberale di fronte alle diffuse pratiche e tentazioni autoritarie. Ad esempio, le norme di restrizione del diritto di voto approvate o progettate da molti stati retti dai repubblicani. Sarebbe folle paragonare le attuali tendenze autoritarie euro-atlantiche al totalitarismo degli anni Trenta, ma resta il fatto che la difesa della democrazia liberale è tornata all’ordine del giorno anche negli Stati Uniti di solidissima tradizione democratico-rappresentativa, richiamando il partito democratico a un compito che è stato suo per più di un secolo.