Antonio Varsori (Università di Padova)
Sono trascorsi quarant’anni dal Consiglio Europeo di Milano del giugno 1985, che è stato spesso presentato come uno dei successi della politica nei confronti dell’integrazione europea condotta dal Presidente del Consiglio Bettino Craxi e dal ministro degli Affari Esteri Giulio Andreotti. In quella occasione, in parte forzando la mano, la delegazione italiana, superando l’ostilità del Primo Ministro britannico Margaret Thatcher, fu in grado di far approvare con un voto a maggioranza – Italia, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Irlanda contro Regno Unito, Danimarca e Grecia – la convocazione di una conferenza intergovernativa (CIG) che condusse alla firma dell’Atto Unico Europeo, una significativa riforma dei trattati di Roma, soprattutto l’avvio del processo che si sarebbe concluso con il Trattato di Maastricht. È significativo però che alcuni protagonisti di quel periodo, quali ad esempio i francesi Hubert Vedrine e Roland Dumas, nelle loro memorie non abbiano fatto quasi cenno al ruolo svolto dai leader italiani a Milano, se non addirittura del Consiglio stesso. Come interpretare dunque l’iniziativa di Craxi e Andreotti? Che senso più ampio dare alla decisione presa nel capoluogo lombardo nel giugno del 1985?
In primo luogo va ricordato come a partire dal 1983/1984 il contesto comunitario fosse stato caratterizzato da alcuni eventi importanti: il riaffacciarsi di una stretta intesa franco-tedesca fra il Cancelliere Helmut Kohl e il Presidente francese François Mitterrand e il progetto di unione europea elaborato dal Parlamento di Strasburgo sulla prevalente spinta di Altiero Spinelli. Quanto a Mitterrand e Kohl, essi si erano convinti che la costruzione europea fosse il mezzo grazie al quale gli stati della Comunità avrebbero potuto affrontare la rapida evoluzione del contesto internazionale, in particolare la svolta “neo-liberista” impressa dall’amministrazione Reagan negli Stati Uniti e dal governo Thatcher in Gran Bretagna. Grazie alla “coppia franco-tedesca” al Consiglio Europeo di Fontainebleau del giugno 1984 era stato possibile trovare una soluzione di compromesso al problema posto dalla Gran Bretagna circa quello che a Londra veniva considerata una eccessiva contribuzione inglese al bilancio comunitario. Inoltre, in parte quale risposta al progetto del Parlamento Europeo, erano state costituite due commissioni, l’una presieduta dal senatore irlandese Dooge con il compito di verificare l’ipotesi di una riforma dei trattati di Roma del 1957, l’altra dall’europarlamentare italiano Pietro Adonnino con l’obiettivo di rendere la Comunità più vicina ai cittadini. Fondamentale era stata la nomina del francese Jacques Delors, già ministro delle Finanze dal 1981 al 1984, a Presidente della Commissione Europea. Delors, un europeista convinto, potendo contare sul sostegno di Kohl e di Mitterrand, avrebbe trasformato la Commissione in uno strumento per il rilancio dell’azione della Comunità in tutti i campi: da quello economico a quello sociale, a quello politico. Centrale nell’azione della Commissione fu la redazione di un Libro Bianco che indicava come scopo prioritario la creazione di un “grande mercato unico” attraverso quattro mobilità – merci, capitali, persone, servizi -, si trattava della premessa dell’Unione Economica e Monetaria (UEM), che a sua volta avrebbe condotto alla creazione della moneta unica europea.
In un contesto europeo in evoluzione nel gennaio del 1985 l’Italia assumeva la presidenza della Comunità, era, questa, una fase apparentemente positiva per il paese e per il governo Craxi, sia sul piano interno, sia su quello internazionale. Si parlava di nuovo “miracolo economico”, di leadership stabile e in grado di prendere decisioni di rilievo, di un’Italia che, superati gli “anni di piombo”, stava vivendo radicali trasformazioni nel senso di una nazione più moderna e sicura di sé stessa. Craxi e Andreotti interpretarono dunque la presidenza della Comunità come opportunità per confermare il ruolo internazionale dell’Italia attraverso forti iniziative. In prima battuta il governo italiano si impegnò affinché si concludesse in tempi rapidi il negoziato avviato fin dal 1977 per l’adesione della Spagna e del Portogallo alla Comunità. Tale obiettivo venne raggiunto, ma non parve sufficiente a imporre il ruolo italiano, visto che si trattava di un processo in corso da tempo. In parte, rispondendo anche alle sollecitazioni del movimento europeista che in Italia stava vivendo anche grazie all’azione di Spinelli una fase intensa quanto breve di mobilitazione e di consenso, Craxi e Andreotti puntarono sull’obiettivo di una maggiore integrazione politica, in particolare attraverso il rafforzamento dei poteri del Parlamento Europeo. Non si trattava di una novità, le autorità e la diplomazia italiane avevano sempre sostenuto l’ipotesi di una forte integrazione politica e di una maggiore influenza da parte dell’assemblea di Strasburgo. In gioco non erano solo motivazioni ideali, ma nella convinzione dei governi italiani, da De Gasperi in poi, questi obiettivi avrebbero permesso all’Italia di svolgere un ruolo più forte nella Comunità, aggirando in qualche modo il predominio della “coppia franco-tedesca”. Era però necessario in primo luogo ottenere il consenso degli altri stati membri per la convocazione di una CIG al fine di riformare i trattati di Roma. Nella prima metà del 1985 l’Italia svolse dunque un’intensa azione diplomatica in tal senso soprattutto nei confronti di Bonn e di Parigi, ma tali iniziative non diedero risultati concreti perché le autorità francesi e quelle tedesche miravano a un’azione bilaterale. In tale ambito, in particolare da parte tedesca, venne elaborato un ambizioso progetto di cooperazione nei settori della politica estera e della difesa, che però venne rapidamente accantonato, mentre Mitterrand puntò a un piano – il progetto EUREKA – per una stretta collaborazione nei settori scientifico e tecnologico, una sorta di risposta europea di marca francese al piano americano di “Defense Strategic Initiative” – SDI o “guerre stellari”. In un incontro bilaterale franco-italiano svoltosi a Firenze solo alcuni giorni prima del Consiglio Europeo di Milano Craxi cercò di convincere Mitterrand a sostenere l’ipotesi di una CIG destinata a riformare i trattati di Roma, in particolare circa i poteri del Parlamento Europeo. La risposta di Mitterrand fu nel complesso vaga anche se non negativa. Quando si giunse all’incontro di Milano niente era stato dunque deciso e sembrava non esistere un accordo su una qualche iniziativa importante, ma nella sera della prima giornata di lavori contatti fra la delegazione italiana e quelle francese, tedesca, delle nazioni del Benelux e dell’Irlanda consentirono un accordo intorno alla convocazione di una Conferenza intergovernativa sulla riforma dei trattati di Roma. Il giorno successivo Craxi e Andreotti, sfruttando un articolo di carattere procedurale, furono in grado di porre ai voti il progetto di CIG e di farlo approvare con un voto a maggioranza di sette paesi contro tre. In apparenza si era di fronte a un successo diplomatico italiano, ma questa visione apparirebbe fuorviante se non si tenesse conto dell’esito della successiva Conferenza intergovernativa di Lussemburgo. Nel corso di quel negoziato l’Italia ripropose con forza il progetto per il rafforzamento dei poteri del Parlamento Europeo, ma la delegazione italiana finì con il trovarsi isolata. Venne invece approvata la linea franco-tedesca, la quale sottolineava tra l’altro il potenziamento del ruolo della Commissione. Ciò trovò espressione nell’Atto Unico Europeo, siglato nel 1986 e che Delors avrebbe indicato nelle sue memorie come una pietra miliare nell’integrazione europea. Da parte del governo e del Parlamento italiani si criticò l’Atto Unico Europeo come riduttivo, una sorta di riforma burocratica, non comprendendo come esso avrebbe consentito alla Commissione Delors di avviare una trasformazione della Comunità Europea: dalla riforma del bilancio alla nascita dei fondi strutturali, dal primo “pacchetto Delors” a iniziative che avrebbero favorito l’immagine della Comunità presso i cittadini degli stati membri, alla elaborazione delle premesse dell’Unione Economica e Monetaria e della moneta unica europea. Cambiamenti, questi, la cui importanza la classe politica italiana avrebbe tardato a comprendere, in particolare non si capì come la politica nei confronti della Comunità non si potesse esaurire nella “high politics”, dove l’Italia era in grado di agire anche in maniera efficace, ma finisse con il coinvolgere l’intero “sistema paese”, nel cui ambito non mancavano ritardi, deficienze e contraddizioni, di cui l’Italia avrebbe preso coscienza solo con le conseguenze del trattato di Maastricht, pagando però anche un pesante prezzo e dovendo poi accettare la logica del “vincolo esterno”.
Bibliografia
- Fondazione Bettino Craxi ETS (a cura di), Craxi Andreotti. Politiche, stili e visioni tra conflitti e collaborazioni, Milano, Franco Angeli, 2023.
- Wilfried Loth, Building Europe. A History of European Unification, Berlin/Boston, W. de Gruyter, 2015.
- Antonio Varsori, Dalla rinascita al declino. Storia internazionale dell’Italia repubblicana, Bologna, il Mulino, 2022
- Antonio Varsori, Storia della costruzione europea dal 1947 a oggi, Bologna, il Mulino, 2023