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Mediterraneo Centrale: passato e presente di migrazioni, marginalità e conflitti

Gabriele Montalbano (Università di Bologna)

La retorica dell’invasione dei migranti in Italia, la conseguente militarizzazione del Mediterraneo centrale e la disumanizzazione delle persone che tentano di attraversarlo da sud, sono temi che hanno formato e continuano a formare il dibattito pubblico nazionale. La paura — inventata, incanalata e strumentalizzata — delle migrazioni mediterranee viste come minacce o possibili invasioni ha una storia lunga, complessa e radicata nel passato coloniale, e include anche le relazioni tra Italia, Tunisia e Francia.

Quando nel 1881 la Francia, partendo dall’Algeria già occupata dal 1830, invade la Reggenza di Tunisi ponendo questa provincia ottomana — fino ad allora largamente autonoma — sotto la propria protezione diplomatica e militare, trova un numero consistente di italiani residenti. La loro composizione è estremamente variegata e frutto delle stratificazioni storiche delle mobilità mediterranee: discendenti degli schiavi delle guerre corsare, commercianti ebrei sefarditi, imprenditori liguri, esuli politici risorgimentali avevano fatto della Tunisia il centro delle loro attività commerciali, politiche e sociali. A seguito dell’occupazione militare e con l’avvio delle opere pubbliche a servizio del regime coloniale (porti, strade, miniere, sfruttamento agricolo), molta manodopera — perlopiù proveniente dalla Sicilia occidentale e dalla Sardegna meridionale — fu attratta nel Paese maghrebino, aggiungendosi al composito gruppo di cittadini italiani già lì residenti.

Un gruppo che, pur estremamente eterogeneo da vari punti di vista, era accomunato dalla nazionalità di un Paese che, all’indomani della sua unificazione nel 1861, si proponeva come potenza imperiale e, sebbene più debole diplomaticamente e militarmente di altre, nutriva appetiti coloniali verso l’Africa. L’occupazione della Tunisia non passò infatti inosservata alla classe politica italiana, che la interpretò come un affronto da parte francese. Il cosiddetto “schiaffo di Tunisi” provocò una rottura diplomatica con la Francia, riorientando l’Italia liberale verso gli Imperi Centrali. In queste tensioni imperiali, le migrazioni proletarie furono fortemente politicizzate in senso nazionalista e colonialista.

Dall’inizio del protettorato e soprattutto con le migrazioni di fine Ottocento, la popolazione italiana divenne numericamente superiore a quella dei colonizzatori francesi (nel 1911, gli italiani erano circa 88.000, i francesi 46.000, mentre i tunisini 1.800.000). Per effetto di convenzioni diplomatiche precedenti all’occupazione francese, gli italiani in Tunisia potevano trasmettere la cittadinanza ai propri figli, che non diventavano automaticamente francesi, come invece avveniva nella confinante Algeria. L’ingente numero di lavoratori — soprattutto siciliani — giunti in Tunisia in cerca di occupazione nei cantieri, nelle fabbriche, nelle ferrovie, nelle tonnare e nei campi, fu interpretato da alcuni pubblicisti francesi come l’inizio di un’invasione non dichiarata. Jules Saurin, pubblicista e segretario del Comitato del Popolamento Francese di Tunisi, pubblicò nel 1900 un pamphlet intitolato L’invasion sicilienne et le peuplement français de la Tunisie, in cui condensava la paranoia colonialista di accerchiamento, debolezza demografica e perdita di potere rispetto agli italiani — in particolare ai siciliani, il gruppo regionale più numeroso.

Stranieri e cittadini di una potenza con ambizioni imperiali, gli italiani erano in maggioranza lavoratori manuali, spesso a stretto contatto con i tunisini. Alcuni amministratori coloniali di provincia arrivarono a temere che l’invasione non fosse una minaccia futura, ma una realtà già presente: la manovalanza straniera diffusa nel Paese non avrebbe aspettato altro che un segnale da Roma per rovesciare il potere coloniale francese, magari sfruttando il malcontento delle popolazioni locali. Il dibattito politico francese sulla restrizione, il controllo e l’assimilazione degli italiani in Tunisia celava a fatica il vero timore del potere coloniale: che i tunisini potessero trovare alleanze al di là delle rigide categorie coloniali e razziali su cui si basava la gerarchia sociale. Una crepa in quest’ordine si manifestò negli scioperi del 1904, iniziati dalla manovalanza italiana ma ai quali parteciparono anche lavoratori tunisini contro imprenditori italiani e francesi.

Lungi dall’avere posizioni anti-imperialiste, il Regno d’Italia — i cui appetiti coloniali verso l’Africa orientale erano stati arrestati da Menelik II ad Adua nel 1896 — non perse occasione per sfruttare politicamente l’emigrazione meridionale in chiave coloniale. Il rapporto di subalternità tra lo Stato italiano e il Mezzogiorno si riverberò anche negli spazi coloniali. Le autorità italiane difendevano con decisione i diritti dei loro cittadini nel protettorato quando ciò giovava al prestigio nazionale e alla competizione imperialista, ma erano molto meno solerti a tutelare i propri sudditi quando si trattava di arrestare anarchici e dissidenti politici: in quei casi, la collaborazione tra le questure italiane e la polizia francese era anzi incoraggiata.

Un intenso progetto di nazionalizzazione fu rivolto al proletariato meridionale emigrato in Tunisia: scuole, associazioni, istituti culturali e opere di assistenza furono strumenti per diffondere un messaggio nazionalista e identitario. La Tunisia, con i suoi lavoratori italiani, occupava un ruolo non secondario nell’immaginario colonialista italiano. Gli emigrati nel protettorato francese venivano descritti all’opinione pubblica nazionale come esempio e legittimazione delle ambizioni coloniali italiane nel Mediterraneo africano. La retorica costruita in occasione della guerra di Libia del 1911 coinvolse ampiamente la Tunisia e gli italiani lì residenti: a questa manodopera a basso costo, straniera e proletaria, si prospettava un futuro da coloni, da padroni in una “Libia italiana”.

La conquista della Libia fu presentata come conquista di prestigio coloniale e d’orgoglio nazionale, volta a stimolare l’adesione degli emigrati proletari al progetto dello Stato-nazione. La dicotomia coloniale tra “Bianchi-Europei” e “Non-Bianchi” si costruì e si manifestò nei momenti di tensione. A seguito della strage commessa dall’esercito italiano sui civili libici a Shar al-Shatt, violente proteste scoppiarono a Tunisi nel novembre 1911: i tunisini, solidali con i libici, si scontrarono con gli italiani, già in forte conflitto con i locali per questioni di concorrenza lavorativa. Il regime coloniale, le categorie nazionali e l’irrigidimento identitario fomentato dal quadro imperialista avevano ormai soffocato le precedenti esperienze sindacali transnazionali.

Il progetto colonialista si scontrò poi con la realtà della tenace resistenza libica e con le scarse opportunità offerte da quel contesto. Chi lasciò la Tunisia per la Libia tornò presto indietro, o preferì emigrare verso il Marocco, caduto anch’esso nel 1911 sotto la protezione francese. Solo decenni dopo, nel quadro della riconquista fascista della Libia e dei progetti di colonizzazione del regime, alcuni gruppi di italiani di Tunisia si stabilirono nelle colonie agricole in Tripolitania e Cirenaica, su terreni sottratti alle popolazioni locali. Questo tipo di mobilità coloniale mostra come il legame tra movimenti di popolazione, demografia e potere politico sia stato costruito in modo strumentale, cooptando a vantaggio di retoriche colonialiste e nazionaliste le migrazioni di lavoratori e lavoratrici.

In Tunisia, come in altri contesti nordafricani, fu anche su questa popolazione di europei meridionali di bassa estrazione sociale — poor whites mediterranei potremmo dire — che si costruì, da parte delle autorità coloniali, la frontiera razziale utile a definire cosa e come intendere il “bianco” là dove il mare divideva l’Europa dall’Africa. Migranti proletari — petits blancs — francesi e spagnoli in Algeria, maltesi e greci in Libia, italiani meridionali in Tunisia, condividevano la condizione contraddittoria di trovarsi come popolazioni di frontiera degli imperi o degli Stati nazionali, e al tempo stesso come frontiere mobili delle categorie razziali e nazionali negli spazi coloniali.

La politicizzazione nazionalista delle migrazioni ha prodotto — ieri come oggi — un terreno fertile per xenofobia, razzismo e autoritarismi. Più che un’invasione di migranti, costruita e voluta da determinate politiche, assistiamo oggi a una militarizzazione dei confini marittimi e terrestri che è, nei fatti, una guerra degli Stati contro le persone in movimento. Comprendere la storicità di questo processo può permettere di decostruire le retoriche xenofobe e, quantomeno, dare maggiore consapevolezza a chi subisce direttamente o indirettamente queste politiche, per opporsi al ripetersi di repressioni, autoritarismi e fascismi che segnano il nostro presente e affondano le radici nel nostro passato.

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