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The Associational State. recensione di Matteo Battistini

 

Brian Balogh, The Associational State. American Governance in the Twentieth Century, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2015, pp. 281.

Recensione di Matteo Battistini.

Nel 2008 William Novak nel suo saggio The Myth of the Weak American State denunciava come la storia nazionale statunitense rimanesse inscritta in un rapporto di alterità con quella europea. Un’alterità che enfatizzava una presunta assenza o limitazione dello Stato mentre esaltava le tradizioni del rule of law e del federalismo, del libero mercato e dell’individualismo, che avevano avuto origine nella vicenda rivoluzionaria. Lo Stato debole era in questo senso il prodotto di una diffusa cultura politica anti-statale e di un’ampia tendenza storiografica a leggere la storia nazionale come eccezionale: individuo, mercato e società non avevano avuto bisogno dell’artificio – in ultima istanza dispotico – del governo. L’espressione American State è dunque stata a lungo considerata alla stregua di un ossimoro, non all’altezza di una categoria di analisi storica. Anche nella storiografia europea, spesso gli Stati Uniti sono stati considerati positivamente per il loro Stato debole, oppure negativamente perché arretrati rispetto alla vicenda moderna dello Stato europeo. Per usare le parole di Arthur Schlesinger Jr., la rappresentazione pubblica della storia statunitense è stata lungamente contesa, ma comunque è rimasta legata al mito per cui gli statunitensi ritengono di essere venuti al mondo «per immacolata concezione da una costola di Adam Smith».

Questo mito della nazione senza Stato – che nella storiografia del consenso degli anni Cinquanta faceva il paio con l’altro mito della middle-class society o classless society – solo in parte è stato messo in discussione dalle storiografie «dal basso» degli anni Sessanta e Settanta: sostituendo le classiche categorie della politica con quelle di classe, razza e genere, la nuova storia sociale ha ricostruito la storia nazionale come storia di lotte per la libertà, per l’emancipazione dalla schiavitù, dalla povertà, dall’esclusione sociale e politica, contestando con successo l’eccezionalismo senza però riuscire a portare alla luce il rapporto che lo Stato ha intrattenuto con una società che ora appariva storicamente conflittuale. Non stupisce allora che il neoliberalismo abbia trovato terreno fertile nelle università statunitensi, spostando le scienze sociali nella direzione dello studio a-storico dei comportamenti individuali nella sfera del mercato.

Almeno in parte, soprattutto nella storiografia, questo mito oggi sembra essere superato e Brian Balogh va sicuramente annoverato tra gli studiosi che stanno contribuendo agli studi storici sullo Stato americano. Nel suo precedente libro A Government Out of Sight (2010), recensito su questa rivista nel numero 3/2011, ha sostenuto che nel corso dell’Ottocento lo Stato americano aveva governato diversamente dagli Stati europei, ma non aveva governato meno, semmai lo aveva fatto in modo invisibile, avvalendosi tanto delle amministrazioni statali e locali, quanto dell’associazionismo privato. Ora, alla luce della letteratura dell’ultimo ventennio, Balogh propone una sintesi storiografica con il duplice obiettivo di superare la frammentazione di una storia politica sempre più divisa in sotto-ambiti disciplinari, spesso ridotta a micro-storie, e di liberare lo Stato americano dalla presa ideologica delle contrapposte storiografie novecentesche. Della storiografia di orientamento «conservatore» che, ritrovando nuova linfa nelle rivolte fiscali e culturali degli anni Settanta e Ottanta, ha continuato a raffigurare storicamente gli Stati Uniti come una nazione con Stato debole. E di quella «progressista» che ha invece esaltato lo Stato come agente storico della riforma. Il suo fine in questo senso non è soltanto scientifico. L’autore rivendica per la storia il ruolo di autorità pubblica. La sua convinzione è che una nuova sintesi storiografica centrata sulla categoria di Associational State possa contribuire alla definizione di una narrazione della storia nazionale che consenta di superare un dibattito politico sempre più polarizzato attorno al ruolo del governo (big government contro small government), dibattito che impedisce di comprendere come lo Stato americano abbia storicamente funzionato e come operi ancora oggi.

La sintesi «associativa» consiste in un modo alternativo di narrare lo sviluppo dello Stato attraverso la ricostruzione storica dell’interazione tra governo e società, lo studio delle istituzioni intermedie che hanno svolto funzioni di mercato e assistenza con fine pubblico, l’analisi storica dei mediatori (politici, amministratori ed esperti) tra individuo e Stato. Lo Stato americano diviene così condizione storica necessaria, ma non sufficiente: fin dalle sue origini ottocentesche e ancora nel Novecento, esso è intervenuto forgiando l’ordine, ma non lo ha fatto in autonomia dalla società, agendo dall’alto verso il basso, bensì cooperando con e delegando autorità pubblica alle diverse associazioni dell’economia, della ricerca scientifica, delle professioni e del volontariato. Le politiche pubbliche erano quindi realizzate attraverso un’agency non statale che come tale consentiva di non calpestare la libertà individuale. La questione nodale dello Stato moderno – la sua legittimazione politica – viene in questo modo risolta non teoricamente nel momento fondatore, neanche soltanto nelle fasi storiche di transizione da un regime politico-elettorale a un altro, ma guardando alla pratica di politici, amministratori ed esperti che hanno elaborato un modo peculiare di fare Stato in un contesto segnato da una forte cultura anti-statale: identificare, fissare e associare i gruppi di interesse, piuttosto che combatterli in nome del popolo e della sua sovranità.

Il volume non si presenta come una monografia sullo Stato americano, bensì come un insieme di saggi su diversi attori, temi e periodi del Novecento, che sono tenuti insieme da una lunga introduzione nella quale l’autore presenta la propria sintesi attraverso un confronto con la letteratura della scienza politica che ha sviluppato il filone dell’American Political Development. Dagli anni Ottanta, questa letteratura ha sfidato con successo il mito eccezionalista elaborando uno schema di analisi storica che privilegia le capacità istituzionali e amministrative dello Stato, concentrandosi sulle modalità in cui lo Stato – e solitamente solo lo Stato centrale – aveva costruito la propria autorità su una società che resisteva alla centralizzazione del potere politico. Sulla scorta di una formazione teorica di derivazione weberiana, questa letteratura ha impiegato espressioni come state capacity e bureaucratic autonomy, esaltando il potere dell’esecutivo e la discrezionalità amministrativa delle agenzie governative nell’implementare le politiche pubbliche. Rafforzato dal contributo della storia politica identificata nel Journal of Policy History, questo schema interpretativo fonda la propria scientificità sull’assunto dell’impermeabilità del confine fra Stato e società, accreditando in questo modo lo Stato di un’ascesa inesorabile contro il pluralismo dei gruppi di interesse. L’autore riconosce giustamente il grande merito di questa letteratura ovvero la duplice operazione di riportare lo Stato al centro dell’analisi storica e la storia al fulcro metodologico della scienza politica. Fa propria l’indicazione metodologica basata sul rapporto interdisciplinare tra storia e scienza politica. Altrettanto giustamente però denuncia come questa letteratura non abbia considerato il ruolo che il settore privato e l’associazionismo hanno storicamente svolto non solo influenzando le politiche pubbliche, ma anche amministrando la loro esecuzione. Lo scopo della sintesi associativa è allora mostrare come lo Stato americano abbia agito storicamente integrando pubblico e privato quale modo legittimo della sua capacità istituzionale e amministrativa. La tradizione americana del pluralismo torna, dunque, a essere centrale ma non senza aver riconosciuto l’indispensabilità europea dello Stato.

In questo senso vale la pena menzionare alcune rilevanti questioni storiografiche affrontate dall’autore nei saggi che compongono il volume. La prima è la compiuta affermazione della politica dei gruppi d’interesse con la campagna presidenziale del 1928 di Herbert Hoover. L’autore mostra come l’ex Segretario del Commercio abbia agito in autonomia dal Partito repubblicano che lo sosteneva, con un proprio comitato di esperti che, attingendo dalle prime ricerche di mercato, divideva l’elettorato secondo occupazione e professione integrando la sua tradizionale rappresentazione secondo linee razziali, etniche e regionali. L’elettorato veniva così raffigurato come un insieme di gruppi d’interesse che avrebbero beneficiato di specifiche azioni di governo. Altra questione è quella del rapporto tra scienza e politica con l’apertura nell’amministrazione di uno spazio di agency praticato da esperti, tecnici e professionisti: la nuova classe media dell’epoca progressista. Al di là della pretesa imparzialità della scienza e delle competenze tecniche, la loro azione amministrativa dentro lo Stato non era scevra da influenze culturali e ideologiche nella misura in cui conduceva alla costruzione di rapporti di consenso con i gruppi di interesse che beneficiavano dei servizi da loro erogati. Questi rapporti affiancavano e travalicavano la constituency elettorale che trovava espressione nel voto, influenzando l’agenda del governo. Una dinamica questa che nell’ultimo quarto del Novecento ha alimentato tanto la formazione di nuovi gruppi d’interesse, quanto la crescente specializzazione scientifica volta alla formazione di esperti capaci di affrontare le nuove richieste sociali. Si tratta di un punto interpretativo importante perché consente all’autore di inquadrare la crisi di autorità della scienza che ha accompagnato le guerre culturali degli anni Ottanta e Novanta. Ultima questione è quella del welfare state che, significativamente, non è nominato come tale. L’autore non intende negare l’innovazione politica e l’accentramento amministrativo che il New Deal ha determinato. Non vuole neanche sottovalutare il riallineamento lungo linee di classe che rendeva possibile la maggioranza democratica. Eppure sottolinea due aspetti importanti che soltanto recentemente la storiografia ha iniziato ad approfondire: da un lato, il New Deal costringeva la turbolenta mobilitazione operaia in un meccanismo associativo che spingeva il sindacato ad operare come un nuovo gruppo di interesse, dall’altro diversi programmi di assistenza sociale, previdenziale ed economica poggiavano sulla cooperazione con contractor privati. In questo senso, più che stabilire se il liberalism del New Deal abbia ampliato lo Stato sociale tanto da renderlo paragonabile a quello europeo, si tratta di comprendere il meccanismo associativo che ha avviato e che ancora oggi è all’opera nei programmi federali. Questi, anche quando sono contrattati tra privati e vengono erogati da agenti economici secondo logiche mercantili (come è il caso del sistema sanitario), poggiano su finanziamenti pubblici somministrati indirettamente, ad esempio attraverso deduzioni fiscali. In conclusione, tenere metodologicamente insieme pluralismo e Stato consente di portare alla luce un meccanismo associativo che demistifica la falsa dicotomia storica tra big government e small government. All’inizio del Novecento, i gruppi d’interesse – il business, le scienze sociali e le professioni – hanno stabilito i termini di un pluralismo che non limitava lo sviluppo dello Stato americano, ma lo orientava verso un meccanismo associativo che il New Deal – e successivamente la Great Society – ampliavano e democratizzavano. Secondo l’autore, questo meccanismo caratterizza ancora oggi lo Stato americano, sebbene sia svuotato del suo originario contenuto progressista essendo diventato strumento anche per politiche di stampo e contenuto neoliberale e neo-conservatore.

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