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CHE GUEVARA tu y todos

Di Achille Conti (Università della Basilicata)

Krzysztof Pomian, nella sua monumentale ricerca sulla storia dei musei, ha sottolineato come questi possano essere considerati la sola istituzione capace di stabilire un contatto visivo con oggetti e protagonisti che appartengono al passato. In questo senso il museo, e le mostre, attraverso un meccanismo che persiste nei secoli svolgono un ruolo di ponte tra il presente e il passato, andando così a contribuire alla costruzione di credenze e miti collettivi. È proprio questo il caso della mostra dedicata alla figura di Ernesto “Che” Guevara che, dal 27 marzo al 30 giugno 2025, è stata ospitata nei locali del Museo Archeologico di Bologna. L’esposizione, dal titolo CHE GUEVARA tu y todos, è stata correlata da diverse iniziative tenutesi in città che hanno visto la partecipazione di Aleida Guevara, figlia di seconde nozze del rivoluzionario argentino, e ha visto la pubblicazione di un bel catalogo da parte dell’editore bolognese Pendragon. La mostra ha coperto un arco cronologico abbastanza ristretto ma significativo della vita del Che, visto che si apriva con gli anni della rivoluzione per poi concludersi con la sfortunata impresa in Bolivia in cui Guevara trovò la morte. Il percorso museale illustra ben l’impegno rivoluzionario per Cuba, il cui simbolo può essere considerata la battaglia di Santa Clara, luogo scelto per ospitare il mausoleo del “Che”, l’attività come ministro dell’Economia e come direttore della Banca centrale. A questi passaggi più legati alle vicende cubano è stato poi affiancato l’impegno internazionalista di Guevara sia come rappresentante di Cuba in giro per il mondo, sia nel suo il tentativo di far scoppiare una scintilla rivoluzionaria in Congo. Da un punto di vista storiografico la mostra è stata costruita in maniera ineccepibile tanto da risultare, probabilmente, ostica almeno in alcuni passaggi a un pubblico non specialistico, aspetto questo mitigato dall’enorme apparato fotografico e dai tanti contributi audio e video presenti lungo il percorso.

Sulla scia dei già citati studi di Pomian quello che è interessante sviluppare è un ragionamento storiografico che utilizzi la mostra come strumento interpretativo per spiegare due passaggi fondamentali: la centralità della figura di Che Guevara, a sessanta anni dalla sua morte, e l’immaginario che l’opinione pubblica conserva della rivoluzione cubana e del regime che dal 1959 guida l’isola. Innanzitutto va inquadrato e spiegato, da un punto di vista storico, il momento in cui la rivoluzione cubana è diventata un punto di riferimento per la sinistra mondiale. Questo passaggio va collegato al progressivo indebolimento del comunismo di stampo sovietico come modello internazionalista, che a partire dal 1956 cominciò a perdere progressivamente quei caratteri palingenetici che lo avevano reso un esempio valido a tutte le latitudini. La destalinizzazione, con la denuncia dei crimini stalinisti, la repressione della rivolta ungherese e l’avvio del conflitto con il regime cinese furono tutti passaggi che fecero perdere all’Urss il ruolo di paese guida del comunismo mondiale, non a livello strategico, in quanto Mosca non venne troppo impensierita dai vari modelli alternativi come quello cinese, ma soprattutto a livello di immaginario collettivo. Questo processo subì poi un’accelerazione ancora più grave con l’arrivo al potere di Breznev e con la repressione della Primavera di Praga, tanto che Silvio Pons ha fatto coincidere il 1968 come l’inizio del tempo della crisi del comunismo sovietico. A rendere ancora più evidenti le difficoltà del comunismo di stampo sovietico contribuì in maniera decisiva il terzomondismo, cioè la tendenza a individuare fuori dal contesto europeo centri alternativi che potessero sostituire l’Urss la cui immagine mondiale risultava duramente scalfita. Tra gli anni Sessanta e Settanta diventarono dei veri e propri punti di riferimento il maoismo, con il famoso Libretto rosso di Mao sventolato nelle manifestazioni nelle città occidentali, Ho Chi Minh e la guerriglia vietnamita, Frantz Fanon e il suo terzomondismo in chiave anticoloniale e, infine, Cuba con la rivoluzione castrista. Tra tutti questi miti politici l’unico che ha superato gli anni Settanta e che ancora oggi, seppure in parte ridimensionato, continua a ricoprire un certo ruolo nell’immaginario collettivo è la rivoluzione cubana e in particolare la figura di Ernesto Guevara; il fatto che la mostra bolognese abbia attirato in tre mesi oltre 20.000 visitatori, dimostra ancora una volta quanto sia solido il mito del guerrigliero argentino a differenza dei tanti protagonisti del comunismo mondiale che ormai sembrano essere consegnati esclusivamente alla storia. Come si spiega il persistere di questo mito?

Una prima risposta a questa domanda può arrivare dall’immagine che il regime castrista è riuscito a costruire negli anni mascherando quegli elementi che lo accomunano alle altre dittature comuniste, come la repressione violenta del dissenso, l’assenza delle libertà fondamentali e la crisi economica dovuta a scelte economiche ormai superate. Questo passaggio si è verificato probabilmente grazie a diversi aspetti: l’aver garantito la sanità e l’istruzione per tutti mantenendole gratuita anche a fronte dell’embargo americano, il fatto che la piccola isola caraibica sia stata in grado di tenere testa alla pressione americana a differenza di altri paesi dell’area come il Guatemala e il Nicaragua, la presenza di leader quali Guevara e Fidel Castro la cui forza iconica appare indiscutibile. Soffermandoci su quest’ultimo elemento non è da sottovalutare il ruolo svolto dalle centinaia di fotografie che ritraggono Guevara, una su tutte il famoso scatto di Alberto Korda riprodotto da decenni su diversi gadget e presente sulla Piazza della Rivoluzione a L’Avana. Questo apparato iconografico ha contribuito non poco a fare del “Che” un eroe senza tempo, un rivoluzionario idealista da opporre all’ingessato comunismo sovietico e cinese rappresentato da burocrati più attenti alla conservazione dello status quo che alla rivoluzione. A tutto ciò si è aggiunta la morte prematura di Guevara, ucciso a solo 39 anni, e il suo essere, fin dal suo viaggio in moto in America Latina, il difensore delle fasce più povere del continente americano.

Il successo della mostra, ha dimostrato ancora una volta come Ernesto “Che” Guevara continui a essere una figura mitologica senza confini, la cui figura è stata solo in parte scalfita dallo scorrere degli anni. Si pensi, in questo senso, alle persecuzioni ai danni degli omossessuali e all’immagine di un “Che” violento e spietato messo in mostra da Oliver Stone nel suo film del 2003, che comunque non hanno ridimensionato poi più tanto l’immagine di Guevara.

In conclusione, secondo Pomian il museo si occupa di credenze terrene, non per rendere grazie a una divinità, ma per conservare gli oggetti fino a un futuro indefinitamente lontano; la persistenza del “Che” tra le figure simbolo del Novecento sembra reggere bene il peso degli anni e, guardando al successo di pubblico che ha riscosso la mostra, è probabile che il mito del “Che” perduri effettivamente per un futuro indefinito e lontano.

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