Marco Labbate (Università degli Studi di Urbino Carlo Bo)
La mattina del 14 febbraio 1965, un professore del Cicognini di Prato, vecchio militante del Partito d’Azione, sale alla parrocchia di Barbiana. Non si tratta di un fatto nuovo. Quando don Milani era un giovane cappellano alla parrocchia di San Donato a Calenazano, nonostante le diverse idee, Agostino Ammanati aveva stretto con lui una solida amicizia e aveva collaborato alla scuola popolare avviata dal sacerdote. Anche dopo l’esilio di don Milani a Barbiana, aveva continuato ad andare a trovarlo. Questa volta porta con sé un ritaglio de «La Nazione», contenente lo scarno comunicato della sezione toscana dell’Associazione dei cappellani militari in congedo: dopo aver accordato ai combattenti di Salò una tacita riabilitazione, auspicando la fine di «ogni discriminazione e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutta le divise, che morendo si sono sacrificati per il sacro ideale di Patria», concludevano l’omaggio ai caduti con un attacco alla «cosiddetta obiezione di coscienza», «insulto alla Patria», «estranea al comandamento dell’amore», «espressione di viltà». Per don Milani leggere il testo con i suoi ragazzi è un modo di fare scuola: quella domenica discutono del valore della disobbedienza di fronte a ordini infami, come quelli emanati durante le guerre. Ma già due giorni dopo il priore comunica alla madre l’intenzione di scrivere una lettera di risposta ai cappellani, sperando di ricavarne «tutte le grane possibili».
Nasce così la lettera ai cappellani militari, uno dei testi antimilitaristi più celebri del Novecento italiano. Già un suo amico, un prete operaio, don Bruno Borghi, aveva redatto una replica, passata inosservata. Don Milani sceglie il taglio più spregiudicato della forma epistolare, che permette il passaggio dalla terza persona plurale alla seconda, e un linguaggio diretto, provocatorio. All’ambito teologico preferisce quello più carico di tensioni della storia e delle guerre patrie, che don Milani definisce di aggressione, con l’eccezione della Resistenza. Anzi, in un punto celebre, lo stesso concetto di patria ne esce trasfigurato: patria sono «diseredati e oppressi», stranieri «i privilegiati e gli oppressori». In realtà anche la lettera ai cappellani militari sembra destinata all’oblio. Stampata in 5000 esemplari e mandata ai giornali, ai sindacati, ad amici e a tutti i preti fiorentini, sul momento il testo non suscita molte reazioni. Poi qualche stralcio comincia ad apparire su alcuni giornali di sinistra. Infine il 6 marzo la lettera è riprodotta integralmente su «Rinascita», all’interno di una rubrica dedicata al mondo cattolico, con il titolo I preti e la guerra. E in una diocesi già attraversata da alcune tensioni tra una chiesa preconciliare e una che precorreva il Concilio, diventa un caso la cui eco si riverbera in tutto il Paese.
Fino a quel momento don Milani non aveva dedicato particolare attenzione all’obiezione di coscienza. Altre erano le figure che nel mondo cattolico si erano esposte per un suo riconoscimento, come padre Balducci. Tuttavia, pur se confinato a Barbiana, don Milani è parte del vivace contesto ecclesiale fiorentino, di quella «città laboratorio» dell’obiezione di coscienza, come la definisce la storica Bruna Bocchini. E il vescovo Florit interviene: con i cappellani militari si mostra benevolo, a don Milani intima il silenzio, minacciandolo di sospensione a divinis. Più della questione dell’obiezione di coscienza, lo muove una paranoica ossessione verso tutto ciò che odorava di classismo e dunque di comunismo. Nel suo diario personale don Milani e don Borghi sono etichettati come «comunistoidi». Nel frattempo le Associazioni d’Arma presentano un esposto alla procura della Repubblica, accusando don Milani di aver gettato «manate di fango contro l’esercito»: per il priore scatta l’incriminazione presso la procura di Roma, assieme al direttore responsabile di «Rinascita» Luca Pavolini. Contro il sacerdote i giornali conservatori o di estrema destra scatenano una campagna infamante, tracciandone l’immagine caricaturale di un intollerante “agit prop” comunista: ridotto al silenzio, don Milani non può difendersi, mentre a Barbiana giungono via lettera insulti e minacce anonime. Esiste però anche una parte della società, cattolica e laica, che si muove in suo favore. Soprattutto, sebbene solo in forma privata, anche Paolo VI gli manifesta la sua solidarietà. Per don Milani è importante, perché spunta l’arma della sospensione.
Così, in vista del processo che si sarebbe tenuto a ottobre, don Milani elabora una strategia difensiva per «andare in tasca elegantemente all’ordine di Florit». Debilitato dalla leucemia, scrive una memoria difensiva ai giudici che il presidente del Tribunale sarebbe stato costretto a mettere agli atti e i giornalisti avrebbero potuto copiarla. Al nuovo testo lavora alacremente con uno studio assiduo. Ancor più di quella ai cappellani, la Lettera ai giudici lascia in secondo piano l’obiezione di coscienza. Il fulcro è la responsabilità dell’individuo, che egli considera a partire dalla sua di maestro e sacerdote, i riferimenti sono il processo di Norimberga, quello di Eichmann a Gerusalemme o il carteggio tra Gunther Anders e Claude Eatherly. Le questioni etiche sono elaborate con una maniacale cura stilistica. «Noi abbiamo prodotto la lettera ai giudici come si produce un’opera d’arte», avrebbe spiegato don Milani ad alcuni aspiranti giornalisti, venuti a trovarlo a Barbiana, spiegando loro che non erano i concetti a essere nuovi «Quello che crea la gratitudine dei lettori è di sentirsi dire quello che già pensano in una forma così limpida, così convincente, […] portata a un livello di, non dico di verità oggettiva, ma di ricerca della verità oggettiva notevolissima». Don Milani vi affianca un’attenta «orchestrazione della stampa», perché alla lettera fosse garantita la maggiore risonanza possibile. E così accade. Quando il processo comincia il 30 ottobre la lettera diventa subito un caso. Don Milani è assolto in primo grado. Sarebbe venuto a mancare un mese prima della sentenza d’appello, che ribalta il primo giudizio, condannando Pavolini. Ma la risonanza delle lettere va ben oltre la vicenda processuale. Incardinandosi sui valori e i linguaggi del Sessantotto, non senza travisamenti, sarebbe diventata un riferimento per l’antiautoritarismo della nuova generazione, che concorda nel derubricare l’obbedienza da «virtù» a «subdola tentazione» e si percepisce quale unica «responsabile di tutto», come don Milani aveva scritto nella lettera ai giudici. Tuttavia le lettere milaniane non possono essere separate dal contesto: appartengono all’opera letteraria della scuola di Barbiana. «Sono episodi della nostra vita e servono solo per insegnare ai ragazzi l’arte dello scrivere, cioè di esprimersi cioè di amare il prossimo, cioè di far scuola» scriveva don Milani a Nadia Neri. «I signori ai poveri possono dare una cosa sola: la lingua».