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La storia balcanica tra religione, nazione e Stato

Intervista ad Armando Pitassio a cura di Salvatore Botta

Tra i maggiori storici dell’Europa orientale e balcanica, Armando Pitassio ha insegnato per molti anni nelle aule dell’Università di Perugia. Recentemente è stato pubblicato un volume composto da una serie di saggi a lui dedicati (A Sud dell’Est, a cura di Emanuela Costantini e Fabio Giomi, Morlacchi Editore, 2021) che offrono uno spaccato dei principali temi di ricerca affrontati nel corso delle sue ricerche. La stampa di quest’opera ci è parsa l’occasione importante per condividere con lui alcune riflessioni sull’evoluzione della professione di storico e della sua disciplina, sia dal punto tematico che metodologico.

La tua formazione di storico comincia negli anni Sessanta. Il clima politico nazionale e internazionale di quel decennio ha influito sul tuo approccio agli studi sull’Europa dell’Est?

Devo fare una premessa. Il mio interessamento all’Europa dell’Est – o più precisamente per l’Europa del Sud-est – non ha inizialmente motivazioni politiche, anche se in seguito queste non sono mancate. Per parte di madre ho un legame con l’Istria interna, là dove influenze slovene, croate e italiane si sono andate a incrociare e a sovrapporre, sicché ne sono stato stimolato a studiare le lingue e la storia dei popoli che abitano la penisola danubiano-balcanica. Non a caso la mia tesi di laurea, da cui poi è nato il mio primo lavoro pubblicato, trattava la storia religiosa dell’Istria al tempo della Riforma protestante e aveva come protagonisti riformatori e controriformatori italiani, slavi e tedeschi. Ma devo fare un seconda premessa, legata stavolta alla mia data di nascita: i grandi avvenimenti politici che indubbiamente hanno influenzato il mio approccio allo studio del Sud-est europeo prima ancora dei grandi movimenti della fine degli anni Sessanta sono stati sicuramente la denuncia chruscioviana dello stalinismo, i fatti di Ungheria e la frantumazione del fronte comunista da un lato, la sollevazione popolare contro il governo Tambroni e la nascita del centro-sinistra in Italia dall’altro. Iscritto al PSI nel 1958 avvertii ben presto l’esigenza di interessarmi alla storia politica e sociale contemporanea. Il superamento dello stalinismo sembrava aprire nuove strade per una trasformazione della società e i movimenti della fine degli anni Sessanta autorizzavano inizialmente a crederci. Nato come modernista con l’occhio attento alla storiografia degli “Annales” da un lato e dall’altro allo storicismo tedesco di Droysen e Ranke, spostai ben presto i miei interessi verso la storia delle grandi trasformazioni politiche e sociali del mondo contemporaneo e del movimento operaio: Marx, i classici del marxismo e la storiografia ispirata da quel pensiero (Lefebvre, Soboul, Cobb, Hobsbawm ecc.) divennero allora per me i punti di riferimento. Ma nei Balcani mi trovavo di fronte a un paradosso: esistevano forti partiti legati alla II internazionale (e più tardi alla III) in un contesto economico-sociale dominato da una produzione agricola arretrata. Quali erano i rapporti tra i teorici socialisti cresciuti nell’Europa centro-occidentale industrializzata e i dirigenti dei partiti socialisti balcanici? Quale alternativa veniva offerta dai partiti che si identificavano nella difesa del mondo contadino? E, in definitiva, come venivano costruiti i nuovi stati usciti dalla dissoluzione dell’Impero ottomano in un contesto caratterizzato dall’arretratezza economica, dallo scambio ineguale, dalla sudditanza effettiva alle Grandi potenze? Furono questi temi molto presenti nelle mie ricerche degli anni Settanta e Ottanta.

Quali autori hanno particolarmente ispirato le tue analisi della costruzione dello stato nazionale nell’area danubiano-balcanica?

Nel corso degli anni mi è capitato a più riprese di interessarmi ai rapporti intercorrenti tra l’Italia e i paesi balcanici, molto spesso ai collegamenti che si stabilirono tra il Risorgimento italiano e i movimenti nazionali nei Balcani. È risultato quindi inevitabile riflettere su affinità e differenze tra quanto è successo in Italia e in Germania da una parte e quanto è avvenuto nell’Est europeo, vale a dire nell’area dominata per secoli dagli Asburgo e dagli Ottomani (per non parlare poi della Russia dei Romanov). Attraverso quali tappe si passava dallo stato dinastico allo stato nazionale? E in cosa consisteva la nazione attorno alla quale si costruiva lo stato? Mi colpiva la concezione perennista della nazione così diffusa ancora oggi nella cultura di massa (e non solo) dell’Europa orientale per cui la battaglia di Kosovo polje del 1389 diventava la battaglia della “nazione serba” contro il Turco musulmano, gli stati bulgari dell’alto e basso medioevo erano gli stati della “nazione bulgara”, la “nazione romena” risaliva alla fusione delle popolazioni dace con quelle latine ecc. Certamente nella concezione herderiana tutto questo poteva andare bene. E anche Pasquale Stanislao Mancini aveva scritto nel 1851 che le «tante Nazioni che fin qui vissero…superando i limiti delle zone e dei secoli…» erano «società naturali [mia sottolineatura] di uomini da unità di territorio, di origine, di costumi e di lingua conformati e comunanza di vita e di coscienza sociale», e per Carducci e Verdi la battaglia di Legnano era la battaglia della nazione italiana contro l’oppressore germanico. Ma non era ormai più il modo in cui la cultura contemporanea occidentale concepiva la nazione, che veniva connessa alle grandi trasformazioni politiche e sociali dei secoli XVIII-XIX. Già Renan aveva affermato alla fine del XIX secolo che la nazione era frutto di una scelta continuamente rinnovata e Chabod, riprendendo quel pensiero nel pieno del conflitto mondiale contrapponeva nelle sue lezioni universitarie l’idea della nazione come atto della volontà dei cittadini in quanto liberi all’idea di un’unità organica precedente ogni libera scelta degli individui che ne facevano parte. All’incirca nello stesso periodo Hans Kohn elaborava una netta distinzione tra l’idea di nazione maturata in Inghilterra e quella di nazione sviluppatasi nel continente: la prima sarebbe consistita nel popolo che acquisisce la sovranità, sicché ne deriverebbe un nazionalismo “razionale” e “realistico” perché fondato sulle necessità dei cittadini, la seconda era una trasposizione della prima in un ambiente socialmente e politicamente più arretrato dove le cerchie di intellettuali che la coltivarono avrebbero privilegiato invece che la difesa dei diritti dei cittadini quelli della comunità etnica, il “Volk”, da qui nazionalismo irrazionale, in quanto nutrito di miti del passato e di sogni del futuro. Molti anni più tardi, nel 1960, Elie Kedourie avrebbe scritto di un nazionalismo “repubblicano” di origine kantiana contrapposto ad un nazionalismo “organico” di origine herderiana e in tempi ancora più recenti Liah Greenfeld avrebbe fatta un’analoga distinzione, contrapponendo un “individualistic civic nationalism” ad un “collectivistic nationalism”. Va da sé che quando Kohn e Chabod introducevano quella distinzione, ripresa da Kedourie, pensavano soprattutto a contrapporre (e a salvare) il nazionalismo dei paesi occidentali in guerra con quello tedesco. Il nazionalismo organico aveva bisogno di riunire in un unico stato le sparse membra della nazione germanica ad ovest (Alsazia e Lorena) come ad est (Sudeti, Danzica, Austria) e in nome di questo privava i suoi cittadini dei loro diritti. Ma non era quanto era accaduto e accadeva per tutti gli stati nazionali dell’Europa orientale nati dalla dissoluzione di quelli che venivano denominati come “imperi multinazionali”? Le nazioni nell’Est europeo da cui erano nati quegli stati si erano sviluppate nell’epoca della società industriale, come voleva Ernest Gellner, ma, a parte in Boemia e Moravia, dove mai si trovava traccia di una società industriale nell’Est europeo? Aveva allora forse ragione Benedict Anderson che preferiva collocare la nascita del nazionalismo nella rivolta antimperiale delle colonie dell’America meridionale piuttosto che nella progredita Europa occidentale o nelle colonie dell’America settentrionale? Ma questa carica “antimperiale” del nazionalismo, celebrata da Anderson come “nazionalismo buono”, non conteneva in sé i germi dell’ostilità allo stato dei cittadini, come argomentava John Breully? E nel momento in cui si rifiutava la visione della nazione come una “società naturale” e si optava per l’analisi storica del nation building erano particolarmente utili gli studi di Paul Brass sull’ethnos building.

Direi che la presa di conoscenza del dibattito antropologico e politologico sul tema della costruzione della nazione e dello stato nazionale è stata per me sicuramente fondamentale per tentare di capire le dinamiche di costruzione della nazione, dello stato nazionale nel Sud-est europeo, nonché le relazioni interbalcaniche in epoca contemporanea.

In che modo religione, nazione e Stato rappresentano le coordinate attraverso le quali nei tuoi studi hai affrontato la complessa evoluzione della storia balcanica degli ultimi due secoli?

Mi si permetta di allargare il discorso partendo da una domanda: perché le comunità di lingua d’oil, di lingua d’oc, quelle bretoni e quelle basche, quelle germaniche dell’Alsazia e della Lorena, quelle corse, le comunità religiose cattolico-romane e quelle protestanti concorrono tutte quante nella nazione francese e invece le comunità germaniche, italiane, ceche, polacche, slovene, croate e serbe non sono confluite in una nazione austriaca? Perché cinque secoli di dominio ottomano non hanno dato origine ad una nazione ottomana? L’estensione dello stato francese verso la fine del XVIII secolo non era minore di quella dello stato austriaco (e lo distinguo da quello ungherese), ma non è stato investito da un moto centrifugo quale quello che ha sconvolto lo stato dinastico asburgico. Non dico certo nulla di nuovo quando ricordo come il processo di accentramento del potere nella monarchia francese sia stato plurisecolare, favorendo un’unificazione sul piano delle istituzioni, delle leggi, dei costumi e “anche” linguistico che la Rivoluzione e Napoleone avrebbero completato: nel momento in cui il “popolo” diventava “nazione”, vale a dire la sovranità era sottratta al re, alla nobiltà alta e bassa, di spada e di toga, alle corporazioni e ai magistrati delle città regie ed era traferita ai cittadini il processo di omogeneizzazione tra centro e periferia era in parte non indifferente già avvenuto e sarebbe proseguito nel corso dei decenni successivi. Questo processo di accentramento e omogeneizzazione nei domini asburgici partì relativamente tardi e il popolo, o meglio i popoli, della periferia nel momento in cui cominciarono a rivendicare la sovranità, e quindi a divenire nazioni tesero a valorizzare ed esaltare, ma anche a creare, distinzioni locali rispetto al centro, ma anche rispetto ai vicini: ad esempio gli slavi occidentali dei domini asburgici dell’Austria e gli slavi occidentali asburgici dell’Ungheria creano lingue distinte, il ceco e lo slovacco; lo stesso fanno gli slavi meridionali asburgici, quelli dell’Austria lo sloveno e quelli dell’Ungheria il croato ed ecco quindi che qui è possibile vedere quanto contribuiscano a creare le formazioni nazionali le distinzioni politiche-amministrative in cui erano articolati i domini asburgici. Nel caso dell’Impero ottomano si devono ricordare da un lato il fatto che la Sublime Porta attribuiva un ruolo politico-amministrativo alle organizzazioni religiose ed ecclesiastiche – il Patriarca greco-ortodosso di Costantinopoli era un alto funzionario dell’Impero a capo della comunità cristiana ortodossa così pure il Catholicos armeno per i cristiani armeni – dall’altro il concetto di sinfonia presente nella tradizione della chiesa ortodossa tra potere spirituale e potere statuale e quindi l’importanza della sopravvivenza fino alla metà del XVIII secolo accanto ad una Chiesa greco-ortodossa di una Chiesa bulgara ortodossa e di una Chiesa serba ortodossa. Il nation building era inevitabilmente legato alla distinzione religiosa tanto è vero che nella costituzione di Epidauro il richiamo era esplicitato chiaramente quando veniva scritto che erano cittadini greci coloro che parlavano greco ed erano di religione cristiana ortodossa: non quindi gli ellenofoni convertiti all’Islam e neppure gli ellenofoni fedeli alla Chiesa di Roma. Il concetto di cittadinanza qui si perde e, in compenso, l’aspirazione dello stato che nascerà su queste basi sarà quello di riunire all’interno dei suoi confini tutti coloro che sono ellenofoni e fedeli alla Chiesa di Costantinopoli, la cosiddetta “megali idia” che ha tormentato la storia dello Stato greco per oltre un secolo. L’esempio vale in modo non tanto diverso per la storia degli altri Stati del Sud-est europeo e per le varie nazioni da cui hanno tratto origine. Fino alle recenti guerre jugoslave.

Una delle questioni chiave della ricerca storica è rappresentata dall’accesso alle fonti. Alla luce dei Paesi oggetto dei tuoi studi ricordi particolari difficoltà nel consultare archivi?

Ero particolarmente interessato ad approfondire quanto avevo scritto sulla storia del movimento contadino bulgaro negli anni Settanta basandomi sulle fonti edite, sulla memorialistica e sulla letteratura in merito. Chiesi quindi all’inizio degli anni Ottanta di accedere ai fondi dell’Archivio centrale di Stato a Sofia. Non ebbi difficoltà ad ottenere l’accesso. Avendo tra le mani il “Pătevoditel na centralnija dăržaven istoričeski arhiv” [Guida dell’archivio storico centrale di stato], pubblicato nel 1870, sapevo dove e cosa cercare. Ma inoltrate le richieste passavano i giorni e i documenti non arrivavano. Sollecitavo, ma mi si invitava alla pazienza; sollecitavo ancora e alla fine mi venivano consegnati documenti che non avevo richiesto e, in ogni caso, del tutto privi di significato rispetto alla mia ricerca. Compresi che la mia causa era perduta: indagare sul partito contadino bulgaro in quel momento forza assolutamente subalterna al partito comunista, ma in passato la principale organizzazione politica del paese e concorrenziale ai comunisti non era evidentemente ben visto dalle autorità. L’accesso all’archivio mi era stato dato in base agli accordi intercorrenti tra Italia e Bulgaria cosicché anche gli storici bulgari potevano accedere ai nostri archivi, ma i documenti…beh, quelli con il contagocce e deliberatamente non rispondenti alle richieste. Imparai la lezione e per affrontare il tema dei rapporti tra i socialisti bulgari e Kautsky scelsi di andare ad Amsterdam all’International Institut voor sociale Geschiedenis, dove trovai raccolta una splendida documentazione utile alla mia ricerca: non ero il primo che era costretto a “buscar el levante por el ponente”! Non si trattava comunque soltanto di resistenze delle autorità a ricerche che toccavano i nervi scoperti del regime, c’era anche una certa ritrosia a concedere ad uno straniero le memorie di famiglia: come spiegare altrimenti il calvario che dovette affrontare un giovane collega inglese che, nello stesso periodo in cui io cercavo i documenti sul movimento contadino, conduceva un’indagine sull’amministrazione ottomana delle terre bulgare tra il XV e il XVI secolo (la Bulgaria possiede ricchissimi fondi ottomani)? Dopo la fine del regime comunista, soprattutto dopo il 2000, la situazione appare nettamente migliorata.

I Balcani estremo lembo dell’Europa. Secondo te quali sono le nuove linee di ricerca che in questa prima metà del XXI secolo potrebbero coinvolgere quella specifica area geografica così determinante per le vicende del secolo precedente?

Se ci si limita alla storia contemporanea sarà difficile prescindere dal tema della formazione e consolidamento dello stato-nazione e del nazionalismo: questo alla luce certamente delle recenti guerre jugoslave, ma anche del rapporto che i vecchi e i nuovi stati balcanici intrattengono non solo tra loro, ma altresì con l’Unione europea, sia come membri che come candidati. Sulle guerre jugoslave e sul loro rapporto con il tema del nazionalismo molto si è scritto, da Pirjevec a Bianchini, da Sundhaussen a Mönnesland, senza parlare della produzione controversistica presente nell’area ex-jugoslava. L’auspicabile futuro accesso alle fonti spingerà a studi sempre più approfonditi, anche se già ora imponente è la memorialistica sul tema, nonché sia disponibile una parte della documentazione, innanzi tutto quella raccolta dal Tribunale internazionale per i crimini nella ex-Jugoslavia (ICTY): quest’ultimo tipo di documentazione però presenta il rischio di incrementare una ricerca incentrata soprattutto dei crimini commessi durante i conflitti che sconvolsero la regione. Anche in un altro filone di ricerca tutt’altro che esaurito, quello sul passato comunista dei diversi paesi balcanici si è manifestata una ricerca morbosa sui crimini subiti dalla società ad opera del regime, dovuta alla volontà di denunciare il carattere nefasto del periodo comunista: l’apertura degli archivi ha permesso in un primo tempo proprio questo tipo di indagine e denuncia, favorita d’altra parte da quei governi che più volevano distanziarsi dal passato. Fortunatamente negli ultimi tempi la storiografia sia locale che internazionale ha mutato l’approccio e si stanno profilando interessanti e fruttuosi confronti e collaborazioni tra chi era profondamente critico del mezzo secolo di socialismo reale e chi era propenso a valutarne soprattutto gli elementi di novità in esso contenuti: ne è un esempio il volume curato da Maria Todorova, Augusta Dimou e Stefan Troebst “Remembering Communism”dedicato proprio al Sud-est europeo e pubblicato dalla Central European University Press nel 2014. Su questa strada molto c’è ancora da fare così come su filoni di ricerca abbondantemente trascurati durante il periodo comunista, da quello della storia di genere alla storia dell’ambiente. Ma centrale rimane sempre la domanda di come e perché quella parte della regione un tempo dominio diretto o indiretto ottomano, tanto prima che dopo l’esperienza comunista sia rimasta arretrata economicamente rispetto non solo all’Europa occidentale, ma anche all’Europa centro-orientale che sperimentò regimi comunisti. E qui la storia contemporanea deve diventare storia sul lungo periodo.

Cosa suggeriresti a un giovane che oggi volesse cimentarsi con gli studi balcanici?

Non avrei suggerimenti diversi da quelli che darei ad un giovane che intendesse occuparsi di studi germanici, americani o medio-orientali: occuparsi della storia e, più in generale, della cultura di realtà diverse dalla nostra ha un significato particolare, quello di arricchire la conoscenza di noi attraverso lo studio degli altri. Cogliere gli aspetti comuni e le differenze che corrono tra noi e gli altri, comprendere le differenze e comparare senza ergerci a giudici è fondamentale per capire la specificità del nostro passato e del nostro presente e al tempo stesso fuggire alla tentazione di valutarli come un unicum. Non c’è solo il Risorgimento, ma c’è la formazione degli stati nazionali balcanici: quali sono gli elementi comuni? quali le differenze? La riorganizzazione recentissima del Museo nazionale del Risorgimento a Torino cercava di rispondere proprio a questo tipo di domande. Potrei aggiungere tante altre questioni: ancora negli anni Cinquanta Alexander Gerschenkron cercava di capire il problema delle differenze nel decollo economico raffrontando Italia, Russia e Bulgaria; negli anni Novanta a Trieste Marina Cattaruzza, Marco Dogo e Raul Pupo organizzarono un grande convegno in cui il triste esodo istriano veniva collocato all’interno di tanti altri drammatici eventi europei simili pur nella loro specificità avvenuti nel corso del Novecento, dallo scambio di popolazioni greco-turche degli anni Venti alla cacciata delle popolazioni tedesche da tutto l’Est europeo alla fine della II guerra mondiale. Studiare le difficoltà del funzionamento del sistema di democrazia rappresentativa nella sua introduzione in Bulgaria come in Grecia, in Serbia come in Romania aiuta a comprendere i problemi dell’esportazione nel mondo di quel modello. C’è stato un tempo in cui gli storici italiani che si occupavano dei paesi balcanici apparivano interessati quasi esclusivamente alle relazioni tra quei paesi e l’Italia, giovandosi tra l’altro dei ricchi fondi documentari presenti nei nostri archivi; e ciò a differenza di quanto, ovviamente, avveniva nel campo linguistico e letterario dove si andava sviluppando una ricca tradizione di ricerche interessata direttamente alla conoscenza di quel mondo a prescindere dai rapporti con l’Italia. Naturalmente il filone di studi storici incentrato sulle relazioni tra Italia e paesi balcanici si è mantenuto, basti pensare alla serie di saggi e articoli dedicati al confine orientale. Sempre maggiore però si è manifestato l’interesse per lo studio della storia dei paesi balcanici prescindendo dai loro rapporti con l’Italia e anche coloro che si sono cimentati più recentemente delle relazioni tra il nostro paese e i Balcani sono ricorsi a fondi archivistici e letteratura locali, mi vengono in mente, tra i più recenti, gli studi di Basciani, Caccamo, Clementi, Costantini, D’Alessandri, D’Alessio, Giomi, Gobetti, Monzali, Orlic, Rolandi, Tenca Montini ed altri ancora che in modo diverso si sono occupati dell’Italia nel Sud-est europeo nel corso del XIX-XX secolo e che, tutti, hanno utilizzato fonti e letteratura locali. È quindi assolutamente indispensabile per il giovane che intenda occuparsi della storia del Sud-est europeo dotarsi di una buona conoscenza delle lingue locali oltre che di quelle che permettono di seguire la produzione storiografica internazionale. E assieme alle lingue coltivare anche lo studio della cultura del paese di cui si intende occuparsi, anche se i filoni di ricerca fossero soltanto di carattere politico o economico: oltretutto paesi che hanno dato Predrag Matvejević e Ivo Andrić, Marija Todorova e Tzvetan Todorov, Eugène Ionescu e Constantin Brâncuşi, Konstantinos Kavafis e Giorgos Seferis, Ismail Kadarè se lo meritano.

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