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Lenin, cento anni dopo

Giovanna Cigliano (Università di Napoli Federico II)

Il 21 gennaio 1924, a Gorki, si spegneva tra le braccia della moglie Vladimir I’lic Ul’janov, detto Lenin. La morte giungeva dopo una serie di ictus che avevano progressivamente estromesso il leader bolscevico dalla direzione politica dello Stato sovietico, mentre si consumavano aspre lotte di potere e l’ascesa di Stalin si consolidava grazie al controllo esercitato dal 1922 sulla macchina burocratica del partito in qualità di Segretario generale.

Sin dal ritorno dall’esilio nell’aprile 1917, ben ricostruito nel libro Lenin on the Train di Catherine Merridale, Lenin si era mostrato capace di convincere gli altri dirigenti del partito bolscevico a sostenere le proprie posizioni, anche quando comportavano uno scostamento dall’ortodossia ideologica. Dalle Tesi di aprile alla presa del potere in Ottobre, dalla firma del Trattato di Brest-Litovsk nel 1918 fino al varo della NEP nel 1921, Lenin era riuscito a far prevalere la propria linea politica in nome di una priorità assoluta: portare a compimento la rivoluzione socialista e garantire la sopravvivenza del nuovo Stato nel contesto del continuum of crisis (guerra mondiale-rivoluzioni-guerre civili), a conclusione del quale un paese economicamente e demograficamente in ginocchio era stato costretto ad affrontare anche la carestia.

La leadership politica di Lenin, formalmente di natura collegiale, era emersa rafforzata in senso personalistico dalle drammatiche vicende dell’estate del 1918: mentre la guerra civile divampava lungo tutti i fronti, Lenin, pur colpito da due proiettili, era sopravvissuto a un attentato. Dopo la morte però venne cristallizzandosi un vero e proprio culto della personalità, sapientemente gestito dal partito, che aveva la cifra culturale ed estetica dello stalinismo ed era funzionale alla celebrazione di Stalin come interprete autentico del leninismo contro “deviazioni” di ogni sorta.

Dopo la morte del despota nel 1953 e con la destalinizzazione lanciata da Chruščev nel 1956 si aprì una nuova stagione, soprattutto negli ambienti della sinistra occidentale, ispirata dall’idea del “ritorno” al Lenin “autentico”, non senza il contributo di marxisti di fede trockista come Isaac Deutscher, scomparso prematuramente nel 1967 mentre scriveva La vita di Lenin. Si colloca in questa temperie culturale e politica uno studio celebre pubblicato nel 1968, Lenin’s Last Struggle, nel quale lo storico Moshe Lewin ricostruiva la vicenda del “testamento” di Lenin (una serie di note dettate tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923 nelle quali il leader malato indicava pregi e difetti dei suoi potenziali “successori”, giungendo ad auspicare la rimozione di Stalin dall’incarico di Segretario generale), e prospettava la possibilità di un’evoluzione diversa del sistema sovietico se Lenin fosse rimasto ancora in vita e avesse avuto l’opportunità di privare Stalin del controllo burocratico sul partito.

In Unione Sovietica sarà Michail Gorbačev, quasi vent’anni dopo, a fare del “ritorno” a Lenin uno degli slogan qualificanti della sua politica di riforma del socialismo sovietico. Vladislav Zubok (Collapse, 2021) ha ricondotto questa inclinazione di Gorbačev, definito come «the last true Leninist believer», alla formazione giovanile nel periodo chrusceviano, quando la condanna, pur selettiva, dello stalinismo si contrapponeva al mito positivo di Lenin come autentico interprete della rivoluzione e del socialismo.

Dopo la fine del comunismo e la dissoluzione dell’Urss ha avuto inizio una nuova fase politica e storiografica, nel corso della quale gli studi sulle dinamiche delle guerre civili, sul terrore rosso iniziato nel 1918, sulla «vita nella catastrofe» del 1917-22 (I. Narskij) e sulla gestazione dello Stato sovietico hanno contribuito a enfatizzare la continuità tra Lenin e Stalin, incorporando pienamente il primo nella condanna senza appello del sistema sovietico del quale era stato il fondatore. Il mito politico è stato sgretolato, ma gli storici più seri hanno continuato a esercitare l’arte della distinzione che compete alla loro professione, piuttosto che abbracciare acriticamente nuove teleologie, non meno fuorvianti di quelle precedenti.

L’anniversario di quest’anno è trascorso comprensibilmente in sordina, nel mondo e anche in Russia. Se nel 1970, per il centenario della nascita, l’Unione Sovietica aveva coniato francobolli, nel 2024 la Federazione russa ha accompagnato con il silenzio ufficiale il centenario della morte. Pochi sostenitori del leader comunista si sono radunati sulla Piazza rossa, dove il corpo di Lenin continua a giacere imbalsamato nel mausoleo, nonostante i reiterati dibattiti post-1991 intorno alla necessità di seppellirlo accanto alla tomba della madre per rispettarne le ultime volontà. Questa opzione, caldeggiata fortemente dalla Chiesa ortodossa, raccoglieva nei sondaggi il favore di una parte significativa della popolazione, a fronte di una perdurante opposizione di un terzo circa degli interpellati, decisiva per spingere la leadership del Cremlino a soprassedere.

Le esigenze di mobilitazione e compattamento patriottico connesse al conflitto in Ucraina hanno condotto negli ultimi anni ad accantonare del tutto la questione, ancora troppo divisiva, ma questo non ha comportato lo scivolare di Lenin nel dimenticatoio: la sua figura continua ad abitare il nostro immaginario, sia pure in chiave prevalentemente negativa, mentre la guerra russo-ucraina è in corso. In alcuni recenti pronunciamenti di taglio storico Vladimir Putin ha sottoposto a critica alcuni aspetti della politica leniniana delle nazionalità, in particolare per quanto concerne l’ucrainizzazione promossa nell’ambito delle politiche di “indigenizzazione”. Ma soprattutto il volto, il busto e il corpo di Lenin hanno occupato di frequente lo spazio mediatico internazionale in qualità di protagonisti del “leninopad”, il sistematico smantellamento e abbattimento dei numerosissimi monumenti al leader bolscevico edificati in Ucraina durante il periodo sovietico. Iniziato in modo sporadico nelle regioni ucraine occidentali sin dal 1991, esso ha compiuto un salto di qualità nel 2015 con il varo delle leggi sulla “decomunistizzazione”, e ha ricevuto ulteriore impulso dopo l’attacco russo del 2022, quando è divenuto espressione anche di processi di “derussificazione” e “decolonizzazione”. Un destino davvero singolare per un leader che in vita aveva contrastato lo “sciovinismo grande-russo” e in generale le politiche imperialiste, senza del resto arretrare di fronte all’esportazione della lotta di classe con la guerra e la conquista. Non mancano poi i casi di recupero e ripristino di questi monumenti nei territori dell’Ucraina orientale incorporati dalla Federazione russa: essi vengono restaurati e reinstallati, con dispendio di risorse e di tempo pur nel contesto emergenziale della guerra, a testimonianza della perdurante valenza simbolica rivestita dalle effigi di Lenin agli occhi di una parte della popolazione di quei territori.

Cento anni dopo, il mito costruito intorno a Lenin come rivoluzionario ed emancipatore delle masse popolari è rimasto appannaggio di esigue minoranze intellettuali e politiche. La storiografia post-sovietica ne ha ricondotto la figura storica alla brutale realtà della lotta per la sopravvivenza nel 1917-22 e al fardello della responsabilità politica in qualità di principale artefice dello Stato sovietico. La valenza simbolica però rimane, come dimostrano le recenti vicende in Ucraina. E soprattutto rimane, come un dato acquisito della conoscenza storica, la grande importanza della figura di Lenin per comprendere la storia del Novecento russo, europeo e mondiale.

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