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Historians across borders: recensione e replica dell’autore

 

Nicolas Barreyre, Michael Heale, Stephen Tuck, Cécile Vidal (eds.), Historians across borders. Writing American History in a global age, Berkeley, University of California Press, 2014, pp. 336.

Recensione di Marco Mariano – segue replica dell’autore

Lo studio delle modalità secondo cui il tempo presente condiziona la ricerca storica è un classico della riflessione storiografica, tanto che la massima crociana sull’inevitabile contemporaneità del fare storia è ormai entrata nel senso comune. Molto meno articolata e diffusa è la discussione su come lo spazio, la collocazione geografica e cultural-istituzionale influenzino il lavoro dello storico, e infatti il termine che meglio riassume la dimensione spaziale del suo punto di vista – posizionalità – non è esattamente tra i più utilizzati nella disciplina. Si tende a dare per scontato che questa non sia ininfluente, ma raramente se ne indagano gli effetti. In Historians across borders ventiquattro storici di undici paesi europei hanno tentato di scandagliare nel dettaglio e ricondurre a una visione complessiva i molti canali, spesso sotterranei, attraverso cui la posizionalità agisce sui percorsi istituzionali e di ricerca degli storici europei degli Stati Uniti.

Gli americanisti europei sembrano particolarmente esposti ai condizionamenti della loro collocazione. Per decenni hanno vissuto una doppia marginalità, rispetto ai colleghi non americanisti dei loro paesi e rispetto agli americanisti basati negli Stati Uniti. Ora, in tempi di internazionalizzazione della professione, sono coinvolti più di molti altri nel vecchio continente in un processo di «americanizzazione» che, in gradi significativamente diversi da un paese all’altro, riguarda i meccanismi della formazione e del reclutamento, la scelta dei temi, lo stile e la stessa lingua delle pubblicazioni, e infine i meccanismi istituzionali che regolano le loro carriere, con effetti significativi sulla loro tradizionale condizione di osservatori esterni.

Il volume parte proprio da questa concezione dinamica e multidimensionale della posizionalità, che cambia nel tempo e non si riduce alla geografia, anzi è determinata prevalentemente dai contesti culturali e istituzionali in cui lo storico opera e dai pubblici – nazionali e non, specialistici e non – a cui questi si rivolge.

Un primo, ampio saggio storiografico che individua quattro grandi cesure nella storia dell’americanistica europea – il 1898, la Seconda guerra mondiale, la metà degli anni Settanta e la fine della Guerra Fredda – introduce molti dei fili conduttori che vengono poi sviluppati nel corso del volume. Da un lato, la crescente integrazione in una comunità accademica globale ha reso gli storici europei sempre meno outsiders: i loro temi di ricerca si sono progressivamente diversificati e sganciati dalla tradizionale matrice bilaterale e dalla prevalente concentrazione sulle connessioni euro-americane (a partire dalla storia della politica estera e dell’immigrazione). Questa integrazione è anche metodologica, come denota il successo di approcci affermatisi nelle università americane come il cultural turn, la storia transnazionale e la atlantic history. E di pari passo è cresciuta la capacità di, e la propensione a, dialogare direttamente con i colleghi americani e a pubblicare oltre oceano.

D’altro canto l’americanistica europea, nonostante le indubbie spinte all’omogeneizzazione, non ha perso le molteplici specificità che la sua posizionalità storico-culturale e istituzionale le conferisce. La seconda parte del volume mette a fuoco gli elementi strutturali di questa distintività nella sua configurazione attuale. In primo luogo a livello organizzativo e istituzionale permangono condizioni che non possono non avere riflessi sulla formazione, il reclutamento e la ricerca. Con l’eccezione significativa della Gran Bretagna, buona parte delle tesi di dottorato nascono in dipartimenti in cui la massa critica di americanisti è limitata, vengono scritte non in inglese e giudicate anche da non americanisti. Condizionamenti analoghi, a partire dal rapporto con specialisti di altre sottodiscipline, si ritrovano nelle fasi successive della carriera, quando in alcuni casi (Francia, Italia) si aggiunge la richiesta di produrre lavori di sintesi destinati a non-americanisti e l’opportunità di intervenire nel dibattito pubblico come esperti o commentatori dell’attualità.

In secondo luogo, lo stile narrativo e la selezione dei temi di ricerca sono funzione anche di contesti storico-culturali nazionali, di radicate tradizioni metodologiche e del clima pubblico (europeo, ma soprattutto nazionale). Quando scrivono in inglese per pubblicazioni «internazionali», americanisti tedeschi o italiani sono portati più o meno consapevolmente a adottare un linguaggio meno formalizzato dal punto di vista teorico o elaborato dal punto di vista narrativo. Inoltre il lessico della storia assume connotazioni diverse quando viaggia: il termine «razza», pressoché ineludibile per chi studia storia americana, al di qua dell’Atlantico è carico di significati peculiari che ne condizionano l’uso e la percezione, a partire dal caso della Germania in cui il termine è più screditato e meno praticabile che altrove. E «liberal» ha notoriamente significati diversi in America e in Europa. Infine gli americanisti europei scrivono per una combinazione di pubblici (specialisti e non, locali e internazionali) che continua a differenziarne le scelte dei temi di ricerca e gli stili narrativi. Non sono più outsiders, anzi la loro capacità di mimetizzarsi tra i colleghi e nelle università d’oltre Atlantico è rapidamente cresciuta, ma la loro posizionalità non è stata dissolta dall’internazionalizzazione della professione.

La terza parte del volume sviluppa questa tensione tra la recente tendenza all’integrazione nella comunità americanistica globale e la permanenza degli effetti molteplici e variabili della posizionalità in riferimento a tre ambiti di ricerca che più di altri testimoniano questo intreccio di continuità e rottura: la comparazione euro-americana, la politica estera degli Stati Uniti e il periodo coloniale e rivoluzionario. Mentre il primo saggio sembra riflettere soprattutto il momento di difficoltà della storia comparata di fronte a approcci e sguardi (transnazionali, globali, atlantici) che mettono fortemente in discussione lo Stato nazionale come unità storico-geografica di riferimento, i due successivi delineano tendenze comuni. Nonostante la distanza dei punti di partenza e le peculiarità dei casi nazionali, sia nella diplomatic history sia nella early american history, gli storici europei degli Stati Uniti stanno adottando una strumentazione metodologica di provenienza prevalentemente americana, ma con esiti spesso originali. Sia l’accento sulla dimensione relazionale del potere americano e sulla capacità europea di adattare e negoziare l’influenza politica e culturale d’oltre atlantico che caratterizzano molta storiografia europea recente sul secondo dopoguerra, sia l’adozione critica del paradigma della atlantic history prima in Gran Bretagna e ora nell’Europa continentale, che ha fortemente rinnovato l’interpretazione delle connessioni euro-americane nel quadro globale, si inseriscono in una generale rilettura anti-eccezionalista della storia degli Stati Uniti, finalmente visti come «nazione tra le nazioni» o «impero tra gli imperi». Così le posizionalità degli americanisti europei (il plurale è d’obbligo) finiscono per alimentare la spinta alla internazionalizzazione della storia americana avviata dall’Organization of American Historians nei primi anni novanta.

Infine il volume si chiude con una serie di brevi interventi di commento e ulteriore stimolo alla discussione da parte di storici provenienti da altre regioni del mondo o dai profili professionali e biografici marcatamente transnazionali.

Historians across borders soffre di qualche disomogeneità nella focalizzazione del tema e nei linguaggi adottati, come è inevitabile in un lavoro in cui la maggior parte dei saggi sono prodotti da più di due autori di provenienze diverse. D’altra parte, l’interazione tra americanisti accomunati fondamentalmente dalla loro provenienza europea attorno a un nodo problematico implicitamente riconosciuto, ma raramente problematizzato, offre una ricchezza di esperienze e prospettive che è uno dei punti di forza del volume.

Curatori e autori sollevano un numero di interrogativi almeno pari a quello delle risposte che offrono, e anche questo dà la misura del successo del progetto che ha portato alla pubblicazione di questo volume. Qui ne indichiamo un paio. In primo luogo, in una fase in cui la tensione tra conservazione delle prerogative nazionali e spinte alla cessione di fette di sovranità è tutt’altro che risolta a livello europeo, l’ombra delle singoli matrici nazionali (istituzionali e politico-culturali, più che storiografiche) è ancora lunga. I curatori del volume hanno adottato una definizione di posizionalità che attraversa i confini nazionali, e molti saggi hanno mostrato come questa non sia più riducibile all’appartenenza nazionale dello storico. Tuttavia la dimensione statuale e nazionale ritorna continuamente in superficie non solo come fonte di un quadro normativo da cui dipendono risorse, modalità di reclutamento e percorsi didattici e di ricerca, ma anche come oggetto di studio: non è un caso che l’attenzione degli americanisti europei alla storia politica e istituzionale e allo Stato continui a essere maggiore rispetto a quella dei loro colleghi americani, e soprattutto nei paesi dell’Europa centroorientale e iberica è ancora molto radicato lo studio della storia americana in termini di rapporti bilaterali con gli Stati Uniti. Peraltro anche in aree in cui la storiografia americanistica è più radicata e internazionalizzata le specificità nazionali sono ancora forti, come dimostrano i frequenti distinguo a cui gli autori sono costretti nel tentativo di individuare linee di tendenza comuni. Di fronte alla resilienza di questi confini è lecito chiedersi se esista una distintiva posizionalità europea o se, piuttosto, siamo di fronte a una molteplicità di fattori di condizionamento locali che hanno poco o nulla di peculiarmente europeo.

In secondo luogo la crescente integrazione degli americanisti europei in una comunità internazionale fortemente orientata alle pratiche, ai linguaggi e alla cultura dell’accademia americana non è un processo neutro, apre evidenti opportunità ma pone anche alcuni problemi. Pubblicare in inglese per un pubblico principalmente americano ed essere parte integrante del dibattito storiografico che ha come epicentro gli Stati Uniti sono obiettivi condivisi da una nuova generazione di americanisti europei che, a differenza di quelle precedenti, si posiziona sempre meno come mediatore tra «l’America» e il contesto nazionale e locale. Quando questa integrazione diventa assimilazione può venir meno quello che Thomas Bender ha definito il carattere ambidestro dell’americanistica europea, la sua preziosa capacità di dialogare con la storiografia americana mantenendo i suoi caratteri peculiari. Infine l’omogeneizzazione al modello americano, favorita sia da approcci metodologici comuni sia da pressioni istituzionali esterne all’accademia, accorcia le distanza tra storici europei americani degli Stati Uniti, ma può ampliare quelle tra americanisti e esperti di altri settori. Paradossalmente il processo di «internazionalizzazione» della storia americana, come accennato in uno dei saggi più stimolanti del volume, può allontanarla da quel cosmopolitismo intellettuale che, come l’oggettività, è uno dei «nobili sogni» del fare storia.

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Replica di Nicolas Barreyre (EHESS-Paris) 

At its heart, Historians Across Borders is a dialog. In practice it started as an exchange between a handful of European historians of the United States on the internationalization of US history, yet its avowed and constant vocation, through the many stages of the project, was to start and nourish a dialog between academics in North America, in Europe, and elsewhere, about what shapes historical scholarship, and what it means for the future of the history and historiography of the US, close to our heart, and more largely about our intellectual endeavors in a shifting academic world.

All that to say that, along with Cécile Vidal, Michael Heale and Stephen Tuck, I am delighted that Ricerche di Storia Politica decided to pick up this dialog. In his review, Marco Mariano has perfectly captured both the spirit and the main arguments of the book, and all there is left for us is to thank him wholeheartedly. So instead of going over those points again, I would like to offer here some thoughts about the two points that Marco Mariano discuss at the end of his text—the weight of the national framework and the paradoxical effects of “internationalizing” US history—as a way to further this dialog.

Let me address first what Marco Mariano quite aptly names the long “shadow of each of the national matrices (institutional and political-cultural, more than historiographical)” in the book. This is, in a way, a paradoxical consequence of our focus on location. A historian’s nationality is not a theme we explored, partly because we thought we needed to move away from “identity” in our thinking about historiography. Rather, we set out to tease out the many ways our positions in the field shaped our intellectual endeavors and output, and that included the institutional and professional constraints and opportunities scholars navigate through their careers. What appeared quite clearly in our investigations in that, in Europe, those strictures are heavily national in character: university systems are public, mostly constructed and managed in a national framework; the profession, likewise, is generally regulated at that level; and language here is a powerful factor (although it does not strictly coincide with nationstates), especially when one think of the historian’s audiences. European reforms and the globalization of academic norms and markets have only, so far, tempered this situation.

That said, we need to recognize that the national framework is only one, albeit an important one, of the many dimensions of academic positionality. As Marco Mariano points out, we very consciously gave a definition of the concept that did not hinge on the nation. Methodologically, we also chose to forego from the start any country-by-country approach precisely not to reify the national framework. Likewise, all the chapters are co-written by two to five authors from different regions of Europe to avoid the undue generalization of any one national system, and to confront each of us with both the diversity of situations across the continent and their commonalities. In that respect, it was striking that most of us were mainly familiar with two academic systems: the US and our home country. In spite of notable exceptions, it seemed evident that cross-European circulations of Americanists are less dense than bilateral movements across the Atlantic. More could and should be done about the nonnational dimensions of positionality, however. Some we explored, especially in chapter 3, such as the weight of a handful of European institutions in the field—with small overall numbers of practitioners, even small groupings in key places can have a lot of sway. Yet academic systems are still shaped heavily by nation-states, and an exploration of the role of institutions in scholarship is bound to reflect that.

Linked but different is the question of the shadow of the nation on the scholarship itself, i.e. the nation as the framework for the research of (European) historians on North America. There is undoubtedly a tension throughout the book about what “American history” means; hence the sometimes too long, sometimes awkward phrases used to describe our object, be it “the history of the U.S. and its antecedents,” or the “history of North American colonies and the United States.” We admit we did not resolve this tension; we did bring it to the fore, however, and this is probably a result of our location in Europe. Consider this: we have been talking for more than two decades about the “internationalization of American history.” This expression seems plain enough. And yet: include Spanish scholars in the discussion, and “American” suddenly becomes less clear; but add some early modern historians, and “US” will not work as a substitute for the pre-national era; meanwhile, “North American” would widen the net even more (too?) largely. Intellectual consistency might be that we should forego “American history” altogether, whatever we call it; yet professional strictures still mean that it is in the Journal of American History we aim to publish—not for vanity, but because it is where we are most likely to be read by our peers in the field.

This is not quite a contradiction between intellectual endeavor and professional requirements, but the tension in that little phrase is an apt symbol of the difficulties of the internationalization of American history project—a project well worth pursuing. David Thelen, in a debate around the book a few months ago, underlined that his aim when, as editor of the JAH, he reformulated and gave a boost to this endeavor, was to bring into light new agendas and new questions. The idea behind it was to enrich American history by bringing in fresh questions, new goals, other viewpoints to the study of the past of what is, today, the United States. Our own research suggests that, to be possible, such an endeavor needs an understanding of the institutional and professional strictures and opportunities that would, or would not, allow it to flourish. Our experience leading this project and editing the book, however, also taught us that the sort of collaboration we set up is one venue to make strides in that direction. The collaboration at each stage and each level—on the project itself, on its framing, on the table of contents, on each chapter (co-written by several authors, and discussed by the whole group at large)—might seem cumbersome, but it truly brought us to directions we had not foreseen when it all started.

It might be one way to avoid the risk, on which Marco Mariano concludes, that “the process of ‘internationalization’ of American history … would move us away the intellectual cosmopolitanism that … is one of the ‘noble dreams’” of historians. Positionality, after all, needs not be a handicap. And it might be worth building collaborative projects that explicitly build on its strength—not only to do research, but also to design the agendas for that research.

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