Don H. Doyle, The Cause of All Nations: An International History of the American Civil War, New York, Basic Books, 2015, pp. 382.
Recensione di Daniele Fiorentino – segue la replica dell’autore
«Da Lincoln e Seward a Garibaldi e Mazzini, la tradizione della grande lotta tra bene e male, libertà e schiavitù, civiltà e barbarie, autonomia nazionale e il potere di tiranni stranieri, è sempre stata la stessa» (p. 295). Questa nota scritta dai cittadini dell’Abruzzo al governo degli Stati Uniti in occasione della morte di Abraham Lincoln riassume in poche parole i sentimenti di molti europei sul significato e le sorti della Guerra civile americana, e sull’assassinio del presidente. A distanza di centocinquanta anni da quei tragici eventi diversi studiosi hanno rivisitato un argomento che è sempre stato privilegiato dalla storiografia statunitense. Qualcosa è cambiato, però, soprattutto dopo la fine della Guerra fredda: la Guerra civile non rimane più confinata al Nord-America come ennesimo esempio di una vicenda peculiare che si discosta dal processo storico condiviso dell’Occidente, né viene letta come ulteriore prova dell’eccezionalismo americano. La nuova storiografia mette in evidenza, come fa magistralmente Don Doyle in questo importante studio, che la Guerra civile americana era in primo luogo incentrata sulla schiavitù, ebbe una portata internazionale e transnazionale e soprattutto era parte di un più ampio movimento internazionale repubblicano che attraversò l’Atlantico tra la fine del XVIII e il XIX secolo.
Il libro di Doyle offre una diversa prospettiva sul significato di una guerra troppo a lungo relegata dagli storici a conflitto locale e a esperienza preminentemente americana. Nel corso del tempo, la storiografia sulla Guerra civile ha seguito un percorso particolare in sintonia con l’approccio prima apologetico tipico della geremiade americana, che vedeva nel bagno di sangue un processo di redenzione della nazione, poi con l’idea di prima guerra moderna capace di mettere alla prova le trasformazioni in atto nel paese e, infine, nel periodo della Guerra Fredda, con l’immagine di un conflitto di ben altro tipo, mirato soprattutto al controllo del territorio e delle risorse economiche come passaggio necessario all’affermazione della potenza americana.
A partire dagli anni Novanta del Novecento, però, con la necessità di aprire anche la storia degli Stati Uniti al processo di internazionalizzazione in atto, gli studiosi hanno cominciato ad allargare la propria analisi mettendo sempre più in evidenza gli inevitabili scambi e intrecci esistenti tra la storia americana e quella di altri paesi, e soprattutto dell’Europa. Ciò ha portato nel giro di due decenni a una rilettura degli Stati Uniti non più sotto quell’ottica eccezionalista che aveva dominato il XX secolo, ma secondo una visione transnazionale in grado di mostrare le contaminazioni tra culture ed esperienze politiche e l’appartenenza della storia americana a un contesto più ampio caratterizzato dalla costante circolazione di persone e di idee.
Come recita lo stesso titolo del volume, la Guerra civile americana era «causa di tutte le nazioni», parte di una lotta internazionale, ma anche transnazionale che, come scrive Doyle, scosse il mondo atlantico e decise del destino della schiavitù e della democrazia per il tempo a venire (p. 313). In realtà contribuì in buona misura anche a chiudere una fase di rivendicazione delle libertà fondamentali del genere umano e ad aprirne una nuova nella quale le aspirazioni più democratiche e libertarie dovettero lasciare il passo a una stabilizzazione che in parte offuscava quelle aspirazioni. Di questo Doyle fa solo cenno nelle pagine finali poiché il lavoro si concentra principalmente sugli anni della guerra e quindi sul periodo 1861-1865. Ma, a differenza di altri recenti e importanti studi che hanno contribuito a riportare la questione della schiavitù al centro della discussione e a vedere nella Guerra Civile il completamento di un processo di nation-building paragonabile in qualche misura a quanto avveniva anche in Europa (si vedano ad esempio gli eccellenti volumi di Allen C. Guelzo, Fateful Lightning, 2012, e Randall Fuller, From Battlefield Rising, 2011), Doyle riesce a trovare una ben definita prospettiva internazionale e a dimostrare che quel conflitto fu un evento di portata atlantica, se non mondiale.
The Cause of All Nations è insomma un ottimo esempio di storia transnazionale e atlantica capace di tenere in equilibrio al tempo stesso la vicenda diplomatica, quella culturale e sociale e un’analisi della politica internazionale. Come sottolinea l’autore fu la prima volta in cui si videro all’opera «…i primi sistematici programmi governativi nei quali ciascuna delle parti mise in campo agenti speciali il cui solo scopo era quello di plasmare l’opinione pubblica e, quindi, di influenzare la politica estera di altri governi» (p. 71). Si trattò della prima e ancora incerta applicazione di quella che va sotto il nome di public diplomacy che conobbe il suo culmine circa un secolo più tardi durante la Guerra fredda.
Di concerto con l’analisi degli sforzi compiuti soprattutto dagli Stati Confederati nell’approntare una qualche forma di rete diplomatica, va detto senza particolare successo, il volume prende in esame anche i continui scambi tra rivoluzionari, ex quarantottardi, e abolizionisti che da subito lessero il conflitto come un evento di portata transnazionale, una lotta tra forze modernizzanti del repubblicanesimo e conservatori intenti a mantenere lo status quo. Ad esempio, al tentativo abortito delle autorità dell’Unione di coinvolgere Garibaldi tra i comandanti dell’esercito nordista, come simbolo delle rivendicazioni nazionali nel mondo, rispondeva la rivendicazione confederata della secessione come «parte della causa delle legittime aspirazioni nazionali alla libertà e all’indipendenza» (p. 6). I contemporanei, sottolinea l’autore, erano insomma ben coscienti del mondo in cui vivevano e del significato delle loro azioni a livello internazionale.
È stata infatti la lettura successiva alla conclusione del conflitto fatta prima di tutto dai politici e poi da studiosi al servizio dell’ideale nazionale a costringere la Guerra Civile a rimanere a lungo nei confini dell’eccezionalismo statunitense. D’altronde è un fatto, come dimostra bene questo libro, e come aveva già sottolineato Paul Quigley in uno scambio apparso nel 2011 sul «Journal of American History» (Interchange: Nationalism and Internationalism in the Era of the Civil War, vol. 8, n. 2, 2011), che gli osservatori stranieri e molti dei combattenti per la libertà in Europa e in America Latina le attribuirono un significato particolare, funzionale alla loro visione del mondo e soprattutto a quella sorta di internazionale repubblicana-liberale che aveva cominciato a svilupparsi nell’ultimo quarto del XVIII secolo per dispiegarsi in modo più efficace in quello successivo. Tutti i protagonisti di quel movimento di uomini (spesso anche di donne) e di idee ragionavano in termini di affermazione delle libertà e dei diritti a livello nazionale tenendo ben presenti però le realtà di altri popoli toccati da esperienze simili o almeno in qualche misura paragonabili.
Doyle dedica poi un intero capitolo, Traduzioni straniere, al ruolo giocato da alcuni intellettuali europei nel definire i termini della contesa in modo chiaro, cosa che gli stessi americani di entrambe le parti esitavano a fare, ovvero che si trattava di una lotta per la sopravvivenza o l’abolizione della schiavitù, tra un sistema inteso a modernizzare i rapporti economici e sociali e uno che rimaneva ancorato alla tradizione delle piantagioni a manodopera schiava. Nei primi due anni del conflitto, infatti, mentre il Nord proclamava l’indissolubilità dell’Unione anche su base costituzionale, il Sud si appellava alla Dichiarazione di Indipendenza rivendicando il proprio diritto a separarsi dalla federazione. Da una parte stava la risolutezza di Lincoln e del segretario di Stato William Seward a non creare ulteriori fratture abolendo la schiavitù (cosa che peraltro il presidente non poteva fare unilateralmente senza andare contro la Costituzione), dall’altra la determinazione di Jefferson Davis e dei leader sudisti a non ammettere che la ragione principale dell’uscita dall’Unione ancor prima dell’insediamento di Lincoln stava nel tentativo di preservare quella che consideravano la base economica imprescindibile della loro società.
Il primo tra gli europei a evidenziare questa verità, scrive Doyle, fu Agénor de Gasparin, un intellettuale protestante di origini corse impegnato fin dalla prima giovinezza nella lotta per l’abolizione della schiavitù nel mondo (nel 1839 pubblicò un trattato dal titolo De l’affranchissement des esclaves), il quale nel 1861, a guerra appena iniziata, mandò alle stampe un libro intitolato Un grand peuple qui se relève. Questo compendioso trattato dichiarava quello che molti non avevano il coraggio di dire pubblicamente, che: «qualunque cosa gli americani dicessero della loro guerra, al cuore di essa stava la più grande questione morale del diciannovesimo secolo: la schiavitù […] I ribelli del Sud avevano inscritto la schiavitù nella loro costituzione, e il loro vice-presidente, aveva proclamato la schiavitù come “la pietra angolare” della loro nazione» (p. 134). A questo seguirono altri saggi di studiosi intenti perlopiù a dimostrare la validità delle affermazioni del Nord sul diritto a ricostituire la nazione smembrata poiché, come sosteneva Karl Marx, uno dei più attenti osservatori del conflitto, il Sud difendeva le vestigia di un mondo feudale in decomposizione. Si trattava infatti di una lotta tra due diversi sistemi economico-sociali: quello basato sul lavoro schiavo e quello costruito sul lavoro libero. La vittoria del secondo avrebbe consentito la progressiva emancipazione di ogni forma di lavoro. In questo senso, lo studioso tedesco insisteva nell’evidenziare come i naturali alleati del Sud fossero le forze della reazione in Europa. Quando sul finire del 1862 fu chiaro che la possibilità di un riconoscimento da parte di Gran Bretagna e Francia stava svanendo anche in prospettiva della pubblicazione del Proclama di Emancipazione di Lincoln, nel Sud si pensò bene di rivolgersi con insistenza prima a Napoleone III e poi a Pio IX. D’altronde l’imperatore francese aveva già esitato a riconoscere le rivendicazioni del Sud in attesa di un’improbabile azione concertata con gli inglesi e poi aveva violato le basi fondamentali della Dottrina di Monroe, organizzando una spedizione in Messico, dalla quale si era dissociata perfino la Spagna, per stabilire una monarchia al posto del legittimo governo repubblicano di Benito Juárez.
Doyle in sostanza non trascura nulla degli intrecci e scambi di idee, interessi, persone e gruppi in atto nello spazio atlantico nella seconda metà del XIX secolo. Il suo studio espande e completa quell’approccio «internazionalista» che molti storici hanno spesso richiamato senza necessariamente dare seguito ai loro stessi auspici.
Il libro offre altri spunti importanti che ben si intrecciano con alcuni studi fatti in Italia sul Risorgimento; per esempio prende in esame il contributo materiale dato dai volontari stranieri (tra di loro molti garibaldini), un costume allora comune tra i combattenti repubblicani per la libertà, così come la «strategia latina» della Confederazione, secondo la quale il Sud si distingueva dal Nord Yankee per la sua composizione transculturale e meridionale (una parte consistente della popolazione era infatti di origini spagnole o francesi). Sul finire della guerra nel Sud si cominciò perfino a contemplare l’idea di abolire la schiavitù pur di trovare qualche forma di solidarietà internazionale. Una contraddizione in termini anche questa, e anche una delle questioni in grado di aprire la storiografia a nuove riflessioni e di consentire a chi legge di ridefinire i termini fondamentali di quello che rimane il più sanguinoso e drammatico conflitto nella storia degli Stati Uniti.
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Replica di Don H. Doyle
I am honored to have my book reviewed by Daniele Fiorentino, who has assumed a foremost place among the historians of the transatlantic exchange between Italy and America. I am especially delighted to see that he commends The Cause of All Nations to readers of this journal. My fondest dream in writing this book was not only to break out of the hide-bound national narrative that has confined US Civil War history but also to reach audiences beyond America’s borders.
Looking back, it is clear to me now that my path to this book began during my time in Rome and Genoa as a Fulbright professor in 1991 and 1995. There I found myself teaching US history to Italian students who took none of the things American students might take for granted. Why, I remember one student asking me, did the North not just let the South go, especially since you say the North did not respect the South or slavery? A good question and one only a foreign student might have the nerve to ask.
In Genoa, I lived not far from Quarto from which Garibaldi and his Thousand sailed in May 1860 to defeat the Bourbons and bring the Kingdom of the Two Sicilies into a united Italy. When I learned of the Lincoln administration’s 1861 attempt to enlist Garibaldi in the Union cause, it fascinated me and years later this story became an early chapter in my book. I realized later that “Garibaldi’s Question,” as I call the chapter, was something like the one my student in Genoa had asked back in 1995. Garibaldi insisted he was willing to raise his sword for his “second country,” America, but he wanted to know what was the Union’s cause? Was this just another “intestine” conflict over territory and sovereignty, “like any civil war in which the world at large could have little interest or sympathy,” or was there some larger moral purpose that might command the sympathy of the world?
Wars may be won with bullets and blood, but they are also decided by the contest of ideas and ink. Other historians had already told the story of the diplomatic duel that took place in Britain and France over recognition of the Confederacy. I wanted to examine what we now know as “public diplomacy,” the contest for public sympathy. Early in the war, both sides realized the link between foreign policy and public opinion and they sought ways to win the public to their side.
Carl Schurz, a German 48er serving as US minister to Spain, told Lincoln and his secretary of state William Seward, that the European governing classes wanted nothing more than to see the United States dismembered and the whole republican experiment fail. But the liberal public would rally behind the Union, Schurz assured them, if, and only if, they saw this as a war for emancipation and republican principles. Once the public aligned with the Union, intervention in aid of the South would come at a high political risk for European powers.
For Europeans and Latin Americans the American contest came to be seen as an epic battle in a much larger struggle over the basic principles of human equality, liberty, and self-government. Those ideals had met defeat in Europe during the Revolutions of 1848-49; now America had become the main theater of war. It was conservatives who first introduced the concept by arguing that the American crisis had finally proved that the republican experiment had failed. Union envoys, at first, tried to discourage any larger meaning to the war, and then realized the value of framing the war as a contest of great consequence for people everywhere. America’s cause would thus become the cause of all nations.
I set out to try to prod American Civil War history beyond the confining national narrative of North vs. South and into the transnational turn in historical studies. I found my task was to recover the voices of perceptive observers who understood the American conflict was part of a much larger transatlantic struggle. Doing transnational history, in this case, was a matter of recovering the perceptions of historical actors at the time, and not just intellectuals or political leaders, but also soldiers and citizens on both sides of the Atlantic.
Many of the pro-Union voices abroad were overly generous in their praise of the “Great Republic,” and I was mildly concerned that some readers might misinterpret my book as an effort to reclaim some version of American exceptionalism. I am making an opposite point. Admirers saw America not as exceptional or perfect, but a working model of how people, given the opportunity, might govern themselves, without kings or priests. Foreigners saw slavery as America’s most glaring flaw, and they wanted to see America fight to expiate that evil. Karl Marx and Giuseppe Garibaldi were not the only foreign advocates of America to proclaim the Union cause as emancipation long before Abraham Lincoln was prepared to do so. All of this played beautifully into the Union’s narrative of a global contest fought on American soil against the ubiquitous enemies of liberty.
The Cause of All Nations tried to capture the passionate voices of nineteenth-century rhetoric that may sound romantic, melodramatic, and perhaps naive to our jaded twenty-first-century ears. I hope they also leave readers with a certain wistful admiration of a world in which people unashamedly professed faith in ideals such as “human progress” and “universal emancipation.” I hope readers may find something also to admire in America, which at the end of a nearly suicidal war with itself, for a moment, at least, stood before the world as a champion of such ideals.