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Lo smarrimento e la marginalità crescenti della classe media nera, di cui il nuovo populismo espresso da Lamar e D’Angelo è il segno, si possono leggere, in forma molto diversa, anche nella produzione del musicista che, coetaneo e conterraneo di Lamar (anche lui losangelino e nato nel 1987), ne è per altri versi la perfetta antitesi: Frank Ocean (al secolo Christopher Breaux), oggi il più popolare tra gli eredi della soul ballad “classica” fondata in altri tempi da Marvin Gaye e Stevie Wonder.
Ocean, a differenza di Lamar, non viene infatti da ghetti come quello di Compton ma dai sobborghi piccolo- e medio-borghesi di L.A. (benché nato a New Orleans), e si è formato musicalmente nel collettivo hip hop Odd Future, insieme a talenti ancor più giovani di lui come Tyler, The Creator e Earl Sweatshirt. Il suono e i testi elaborati da questi ragazzi sono lontanissimi dalla realtà dei quartieri degradati, ma non per questo sono più gioiosi o ottimisti: dipingono anzi una vita priva di punti di riferimento, popolata di ossessioni, di visioni e di incubi violenti.
Nei suoi album solisti – in particolare Channel ORANGE (2012) e Blonde, pubblicato a settembre 2016, Ocean propone melodie ricche e seducenti, innestate però su architetture armoniche minimali, e soprattutto accompagnate da liriche che comunicano un senso di sconfitta esistenziale slegato da qualsiasi riferimento comunitario e sociale. Storie di legami precari e di una fragilità senza rimedio, di vite immerse costantemente nella nebbia delle droghe e dell’alcool, alla ricerca del conforto di piaceri effimeri. E’, appunto, ciò che rimane della generazione dei “figli di Obama”, da cui sembrava sembrava dover venire la nuova classe dirigente statunitense.
Il crescente senso di scontento complessivo della società afroamericana, e soprattutto lo smarrimento della sua classe media, si percepiscono infine con la massima evidenza proprio nella produzione più recente della musicista che invece ne rappresenta egregiamente la fascia davvero vincente: parliamo di Beyoncé Knowles, da un quindicennio regina incontrastata dell’r’n’b, che con il marito rapper e produttore Jay-Z incarna oggi il massimo esempio di un vero e proprio establishment socio-economico nero.
Nell’ultima opera di Beyoncé, Lemonade, pubblicata nella primavera di quest’anno, si nota infatti un costante contrasto tra una forte professione di fede nell’autoaffermazione individuale e collettiva degli afroamericani (con particolare insistenza sull’empowerment femminile), e l’avanzare di un senso di allarme e di pericolo, condensato nell’idea che quell’intera comunità sia posta di nuovo sotto attacco.
Una sensazione che si traduce in brani concepiti per reagire allo spettro di una nuova minorità e dare nuova linfa all’orgoglio culturale nero: come Formation – accompagnata da un video girato a New Orleans sui luoghi dell’uragano Katrina – o Freedom, in cui la voce di Beyoncé sembra congiungersi all’eredità di Aretha Franklin, e si fa accompagnare, non a caso, proprio dalla predicazione rap di Kendrick Lamar.
Ma la nuova vocazione “pasionaria” di Beyoncé non intacca, ed anzi conferma, l’immagine di una comunità afroamericana in preda alla confusione, ormai profondamente divisa tra una ristretta nuova “aristocrazia” in grado di fare sentire decisamente la propria influenza sul potere politico ed economico ed un conglomerato di classi inferiori sempre più lontane da un modello realistico di promozione sociale.
Il decennio amaro della incerta presidenza obamiana, della grande recessione, del disagio della globalizzazione penetrato fin nel cuore d’America, trova in questa dinamica disgregativa una tra le sue caratteristiche più inquietanti. La nuova generazione dei musicisti black la sta raccontando in simboli di grande impatto ed efficacia, portando alla luce però insieme ad essa anche le sue profonde incertezze e contraddizioni identitarie.