Fred Spier, Big History and the Future of Humanity, Chichester, Wiley Blackwell, 2015, p. 336.
Recensione di Mauro Moretti
«L’universo si sta dilatando…a che scopo fare i compiti?». Così, in Annie Hall (1977), di Woody Allen, il protagonista Alvy Singer, in un flash-back che lo mostra bambino, si rivolge al medico dal quale la madre, preoccupata dal suo comportamento, lo aveva accompagnato. La battuta mi è venuta in mente varie volte, leggendo il libro di Spier sulla Big History (BH), così segnato da scarti sconcertanti e da acrobatiche semplificazioni; libro che suscita reazioni controverse, di fastidio e di interesse allo stesso tempo. Intendiamoci: la BH non è una stravaganza, e non può essere liquidata con delle facezie. Si tratta di un ambito di ricerca strutturato – www.bighistoryproject.com, www.ibhanet.org, bighistory.mq.edu.au –, con forti proiezioni sui media (History Channel), ben sovvenzionato – paga Bill Gates (p. 27), altro che il MIUR –, con una crescente bibliografia di riferimento – il volume del quale si discute è un tentativo più compiuto, ma non isolato, di proporre uno sguardo di sintesi –, con alcuni antecedenti, ed una tradizione che si cerca di ricostruire: nel caso di questo studio l’antenato prescelto, e molto ben scelto, è l’Alexander von Humboldt del Kosmos. Inoltre, e sul punto vorrei tornare, la BH ha forti implicazioni politiche e pedagogiche, riconducibili, molto all’ingrosso, alle posizioni dell’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore (The Future, 2013). Spier si propone di delineare nientemeno che una «historical theory of everything […] in which human history is analyzed as a part of this larger scheme» (p. 2). Hegel – menzionato, per la verità, come precursore della BH – e Marx impallidiscono, ed anche i molti che si adoperano attorno alla world history rischiano di apparire eruditi di limitato respiro, dato che qui si parte dal big bang: «in big history the past of our species is viewed from within the whole of natural history ever since the big bang. In doing so, big history offers modern scientific answers to the question of how everything has become the way it is now. As a consequence, big history offers a fundamentally new understanding of the human past, which allows us to orient ourselves in time and space in a way no other form of academic history has done so far. Moreover, the big history approach helps us to create a novel theoretical framework, within which all scientific knowledge can be integrated in principle» (p. 1).
Un simile disegno non può che approdare ad una formula risolutiva, unificante il passato cosmico, naturale ed umano: «Whatever happens, I hope that I have made it clear that the principle of tracing energy flows through matter within certain Goldilocks boundaries, leading to the rise and demise of complexity at all levels, not only simplifies our view of the big past, but also helps to clarify the major issues that humanity will have to face in the near future» (p. 314). L’esito appare evidente: per tenere assieme il tutto, si propone una trama a maglie larghissime, e molto loose, al limite dell’irrilevanza storiografica; esito persino rafforzato dal ricorso all’espediente argomentativo Goldilocks/Ricciolidoro, applicatissimo, in vari campi disciplinari, ma non per questo storiograficamente meno banale. La storia è nota: Ricciolidoro entra nella casetta dei tre orsi, assaggia la minestra nei tre piatti, e la trova troppo calda, troppo fredda, o just right; e così via. Snodo centrale, in questo volume, è l’affermazione che determinati processi avvengono, determinati risultati si consolidano, solo quando le condizioni sono appropriate, quando Ricciolidoro dice: just right. Osservazione profonda e, soprattutto, inaudita. Sicché, che si parli di quanto è avvenuto nei «first four minutes» (p. 80) dopo il big bang, della posizione della terra rispetto al sole e del suo angolo di rotazione (pp. 119-121), o della rivoluzione agraria, dei «domesticated plants and animals» (p. 222), Ricciolidoro è sempre lì, vera protagonista, onnipresente nell’opera a dare il suo assenso, just right! Con una specificazione non trascurabile, tuttavia: con l’emersione della vita il compito di Ricciolidoro diventa più articolato e difficile, e quando arrivano gli umani dotati di cervello, posizione eretta e vista stereoscopica, questi sono in grado di interloquire con Ricciolidoro, di orientare le sue scelte, di negoziare il suo consenso. La BH, dunque, «offers a fresh, scientifically based account of all of history, including a time line to which all knowledge can be attached in an orderly fashion» (p. 27). L’impressione di freschezza non mi sento di condividerla appieno: da malinconico lettore di testi storiografici e di metodo tipici della cultura del positivismo maturo, da Buckle a Bourdeau, mi pare di riconoscere gli stilemi di certo riduzionismo materialistico e naturalistico – l’ostinata ricerca di «unmistakable regularities», l’enfasi posta sul fatto che «while most processes are extremely complicated in their details, their overall structures may sometimes be surprisingly simple, if considered with the aid of a top-down approach» (p. 43), la proposta di allusive analogie che dovrebbero avere valore di generalizzazione: «The long-term development of the conditions on Earth’s surface may perhaps best be described by saying that a rather uniform beginning was followed by an even more differentiated range of circumstances, thus producing a great many regions, all with their own particular characteristics. Interestingly, such a general description would characterize universe history, life history and human history just as well» (p. 126) –, anche se, come è ovvio, il quadro di riferimento, lo sfondo scientifico, si è da allora radicalmente modificato; e poi, per dire, un account sembra qualcosa di diverso da una historical theory of everything. Quando si cerca di accreditare un nuovo indirizzo di studi, bisogna designare un modello negativo: per Spier sono gli storici accademici del XIX e XX secolo, «oblivious to any attempts to place humans within a wider terrestrial or cosmic context, focused as they were on costructing patriotic histories and civilizational trajectories» (p. 24). I due paragrafi dedicati alla storia della storiografia accademica e alla storia della BH meriterebbero un’apposita recensione. Fra i principali torti della prima, la caduta delle grandi questioni sulle origini, che avevano animato l’antico sguardo degli uomini sul mondo e sul cosmo, e delle narrazioni a sfondo religioso e mitico – ma ora ci pensa la BH.
Il libro, comunque, parla essenzialmente d’altro, e mi limito a sottoporre all’attenzione degli esperti un passo esemplare delle modalità argomentative di Spier: «The lack of such an integrated attention to the relationship between humans and their natural environment may mirror the difference in focus between what Christians call the Old and the New Testaments. While in the first and longest part of the Bible there is a considerable attention to human relationships with the surrounding nature, the story of Jesus of Nazareth, by contrast, almost exclusively focuses on human affairs. The underlying reason for this may be found in the fact that the authors of the New Testament as well as most nineteenth- and twentieth-century academic historians lived in urban environments» (p. 14). Flusso di energia attraverso la materia, in particolari favorevoli circostanze, allora, chiave di volta dello svolgimento universale, e assieme minimo comun denominatore dell’essenza e dell’esperienza umana: «The human body is a source of infrared light. To keep our wonderful machines alive, we must give off as much radiation as a one-hundred-watt lightbulb. At death, this light goes out» (p. 96). D’accordo: ma questo vale allo stesso modo per san Francesco e per Hitler. Ce ne possiamo contentare? In che rapporto stanno simili generalizzazioni con la natura specifica, con la qualità dell’operazione storiografica, nutrita, essenzialmente, dall’interesse di esseri umani per la vita, le azioni, il pensiero di altri esseri umani? Ovviamente si dà storia del non umano, e dei rapporti fra questo e la sfera umana – dal punto di vista delle informazioni, delle suggestioni, delle indicazioni di lettura, questo è uno degli aspetti più rilevanti, per i profani, del libro di Spier -; ma cosa si perde, costruendo sull’energy flow through matter, una succinta ricostruzione, e con pretese esplicative, dell’everything?
Alcune delle vecchie filosofie della storia avevano almeno qualche robusto pregio letterario. Molto materiale interessante, invece, giace al di sotto di questa pretenziosa impalcatura teorica. Penso, per fare qualche esempio, alla sottolineatura dell’effetto Apollo 8 – le foto, che giungevano dall’orbita lunare, della terra persa in un inospitale spazio nero – sulla nuova immagine che gli umani presero ad elaborare del loro posto nell’universo, e sulla crescente, anche se tuttora immatura, consapevolezza di una, non necessariamente felice, comunità di destino: dev’essere un fatto generazionale, ma sottoscrivo pienamente, avendo fra i miei più vividi ricordi di ragazzino quello di un incontro, a Roma, con il comandante Borman. Penso però soprattutto, considerando che il testo si propone anche come manuale, ai tratti empiricamente interessanti di un possibile, selettivo uso informativo e didattico, a partire dalla larga interazione disciplinare. Agli studenti di humanities non farebbe affatto male ripassare il secondo principio della termodinamica e riflettere sulle sue implicazioni, sulle relazioni fra complessità ed entropia – o fra sviluppo e scarto; oppure confrontarsi con le sterminate antichità, con le quasi inconcepibili cronologie non solo cosmiche e con le misurazioni proposte. Ci sono poi gli spunti suggeriti da una serie di definizioni, come la almeno parziale sostituzione della formula darwiniana di selezione naturale con quella di eliminazione non casuale – nel cosmo non si dà contesa fra specie attorno a risorse limitate, e solo nella sfera della vita sono centrali l’acquisizione di energia dall’ambiente esterno, il ruolo dell’informazione ed i learning processes, con un ricco gioco di associazioni analogiche, qui, fra l’ambito biologico e quello sociale –, oppure quella di «regime», alternativa al troppo rigido «sistema»; e ancora, dalla constatata difformità di percorsi evolutivi, che a livello cosmico sono rallentati, mentre sul piano biologico hanno conosciuto, in tempi relativamente recenti, una vertiginosa accelerazione. Inutile proseguire in un elenco che potrebbe essere piuttosto ricco. Casomai andrà aggiunto che l’ultima sezione dell’opera, che si intreccia con ambiti, questi sì, presenti nelle riflessioni sulla world history, meriterebbe, come i paragrafi storiografici, una discussione a parte.
Una considerazione conclusiva va però proposta. Il disegno generale, lo si è visto, è quello del passaggio alla complessità – con qualche tensione, direi, attorno ad una prospettiva stadiale. E, soprattutto nel campo della vita, «greater complexity also entails a greater risk of decline» (p. 142), è costosa in termini di investimenti energetici, determina entropia, è fragile. Insomma, non siamo al sicuro. Non solo occorre sperare che Ricciolidoro non si distragga – basterebbe poco, l’impatto con un bell’asteroide, già avvenuto, del resto, in passato –, ma anche tener conto del fatto che gli umani potrebbero procedere all’autodistruzione delle condizioni della loro stessa esistenza. Di cosa si stia parlando, è chiaro dal lessico, dai termini privilegiati dall’autore, che sono stati spesso evocati. Qui nella BH si innesta il discorso politico-pedagogico sul futuro. Da un lato, come praticante di storia, non mi sento troppo coinvolto dall’insistenza sui processi di fusione nucleare all’interno delle stelle come remotissima precondizione del nostro essere – lo so, ed è bene rammentarlo, se le cose fossero andate diversamente non saremmo qui, è condizione necessaria, ma certo non sufficiente a sostenere uno specifico discorso storico – mentre come cittadino, e del tutto marginalmente come praticante di storia, il possibile collasso della nostra complessità – Spier mostra come la costruzione della complessità, specie nei cosiddetti sistemi adattivi, sia lenta, ma il suo declino possa essere rapidissimo – mi tocca molto più da vicino. Restando però sul progetto d’insieme, andrà notato che Spier, significativamente, valorizza opere come The Outline of History, pubblicata da H. G. Wells nel 1920 – e allora recensita da personaggi ben diversi, Marc Bloch ed Ernst Troeltsch –, segnata dalla tragedia della Grande guerra e volta, appunto, alla costruzione di una unificata visione retrospettiva a salvaguardia del futuro. Wells di mestiere era scrittore di fantascienza e novellista, ma il nodo storia-futuro preoccupò, nel cuore della seconda guerra mondiale, anche Bloch; e tuttavia proprio a proposito di Wells Bloch coglieva il punto, affermando che non era lecito, per lo storico, trasformarsi in pedagogo o predicatore. A me sembra che la BH non si sottragga del tutto a questi rischi. A Spier piace, ovviamente, anche Arnold J. Toynbee; e la BH fissa agli storici il compito di «forge all those stories into one single coherent historical account explaining how we, as well everything around us, have come to be the way we are now» (p. 15). Proprio in margine a Toynbee, ed alle implicazioni del suo modo di vedere la storia, aveva ironizzato, nel 1936, Lucien Febvre, narrando la storia dello «scià agonizzante» e del suo bibliotecario: «Il sovrano, negli ultimi istanti della sua vita, avrebbe tanto, tanto voluto apprendere tutta la storia…“Mio Signore, – gli disse il saggio vegliardo, – mio Signore, gli uomini nascono, amano e muoiono”».