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Gli esordi della Rai nella complessa transizione alla democrazia

Di Irene Piazzoni (Università degli Studi di Milano)

Caro commissario, tu mi avevi invitato a dirigere un Giornale Radio indipendente, libero di informare il pubblico democraticamente, e che soltanto nei grandi problemi di interesse nazionale non agisse in contrasto col governo. Ho dovuto affrontare, nei pochi giorni del mio lavoro, inopportuni interventi che miravano a limitare o annullare proprio questa libertà di informazione. In ultimo poi, tu e uno dei nostri principali collaboratori vi siete impegnati a che io ricevessi ogni sabato dall’Ufficio Stampa della presidenza del Consiglio indirizzi e suggerimenti di massima. Il nostro collaboratore da tempo sostiene la necessità di una radio priva di sue fonti di informazioni autonome, e limitata a quelle ufficiose e ufficiali, e ha posto la scelta fra lui, che gode la fiducia del presidente del Consiglio, e me, che ho solo le mie convinzioni in fatto di radio: cioè libere. Su di esse non posso transigere e perciò rinuncio all’incarico affidatomi dalla tua fiducia[1].

Così scrive Corrado Alvaro – primo direttore del Giornale radio, ma per sole tre settimane, dal 1 al 23 marzo 1945 – al commissario della Rai, nominato nell’agosto 1944 quando ancora l’azienda si chiamava Eiar, Luigi Rusca. Il quale, a sua volta, così si lamenta in una lettera al Presidente del Consiglio:

Non sono ancora riuscito a sapere da quale ministero dipenda questo ente giacché mi vedo conteso dai ministeri delle Comunicazione, della Pubblica istruzione e dal sottosegretariato Stampa e Informazioni. La mancanza di una certa dipendenza fa sì che: a) la mia nomina a commissario fatta dagli alleati, ma non ancora convalidata dal governo italiano, sia rimasta in sospeso; b) non si sia provveduto alla nomina dei sindaci che io da tre mesi ho richiesto a garanzia della mia gestione straordinaria commissariale; c) non si sia ancora provveduto alla costituzione di una commissione di vigilanza che è stata richiesta dai partiti e promessa dalla presidenza del Consiglio con un comunicato[2].

Nodi, appetiti, timori, incertezze segnano la rinascita, dopo vent’anni di dittatura, del servizio radiofonico, e presto televisivo, pubblico, fino a quel momento in regime di monopolio e rigidamente controllato, anzi docilissimo strumento di propaganda nelle mani del regime fascista. E le lettere di Alvaro e Rusca indicano bene i principali dilemmi e le sfide – quali organi dovranno controllare la Rai? una commissione di vigilanza come richiesto dal Cln? un ministero? e quale ministero? come garantirne l’indipendenza dall’esecutivo? mantenere il monopolio? accentrare o decentrare il servizio? – ma già lasciano intravedere le pressioni e gli interessi che ruotano intorno a quel prezioso ‘bene’ ereditato dallo stato democratico; così prezioso che gli alleati – attori non trascurabili in quel frangente anche sul fronte delle comunicazioni per cui hanno pensato a un organo specifico, lo Psychological Warfare Branch – appaiono piuttosto impotenti.

Gli esiti saranno ambivalenti. Il controllo della Rai rimarrà nelle mani di un ministero “tecnico” all’apparenza, quello delle Poste e delle telecomunicazioni, istituito da governo Bonomi nel dicembre 1944, saldamente controllato, con poche eccezioni, dal partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana, per decenni. Non sarà varata la commissione di vigilanza chiesta dai partiti: in odore di guerra fredda, perché regalare qualche spazio di manovra a comunisti e socialisti? Il monopolio, minacciato da iniziative di privati, è garantito fino al 1952 da una convenzione firmata dall’Eiar e dal governo fascista nel 1927, che viene lasciata in essere: in anticipo sulla scadenza, per evitare imbarazzanti campagne stampa, sarà rinnovata per altri vent’anni.

Certo, il 1 gennaio 1948 entra in vigore la Costituzione, il cui articolo 21, in teoria, consentirebbe a “tutti” il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, tuttavia fino a quando non insedia, nel 1955, la Corte costituzionale, non ci si può appellare ad esso. E quando, dopo il 1955, qualcuno tenterà di impiantare televisioni private confidando sui proventi della pubblicità, il monopolio della Rai sarà blindato da una sentenza della Corte, la n. 59 del 1960, che è un capolavoro di giurisprudenza: è vero che c’è il primo comma dell’art. 21, ma esercitare servizi televisivi costa, quindi “questi non potrebbero essere che privilegio di pochi”, mentre “lo  Stato monopolista si trova istituzionalmente nelle condizioni di obbiettività e imparzialità più favorevoli per conseguire il superamento delle difficoltà frapposte dalla naturale limitatezza del mezzo alla realizzazione del precetto costituzionale volto ad assicurare ai singoli la possibilità di diffondere il pensiero con qualsiasi mezzo”[3]. Del resto pochi nell’arco politico sono a favore di un sistema misto: i comunisti, poi, sono graniticamente contrari. E non sono certo solo i democristiani a coltivare una concezione della radio e della televisione “di Stato” ancillare al potere politico.

Nulla di nuovo rispetto agli anni del fascismo dunque? Dicevamo dei risultati ambivalenti. Se in effetti non si può parlare di un’effettiva cesura sul piano degli organi e delle modalità di controllo e della struttura generale del sistema radiotelevisivo italiano, gli elementi di discontinuità – a parte quella dirimente che ad esprimere le maggioranze è il libero voto dei cittadini, e quella, altrettanto dirimente, che le minoranze possono manifestare il proprio dissenso nei confronti della gestione della Rai, come faranno assiduamente dalle colonne della stampa e in tutte le altre modalità consentite appunto dall’art. 21 –  sono altrettanto evidenti. La soluzione prediletta, infatti, è lavorare sulla qualità dei programmi, su un’offerta calibrata e ad amplissima gittata che riesca a “parlare” a un’audience potenzialmente universale – diversificata per livelli culturali nel caso della radio, generalista nel caso della televisione –, e sulla costruzione di palinsesti che tendano al massimo grado possibile (politicamente possibile) a catturare anche segmenti di cittadini che nei partiti di maggioranza non si riconoscono. L’applicazione di questo indirizzo sarà graduale e neppure tanto gridata, ma a guardare bene già individuabile negli anni cinquanta. Con la sentenza appena citata del 1960 – che risale al rovente luglio di quell’anno fatidico, momento di snodo che indica alla classe politica l’unico sentiero praticabile per governare il paese: il varo del centrosinistra – quell’indirizzo sarà ufficialmente sancito:

In quanto precede è implicito che allo Stato monopolista di un servizio destinato alla diffusione del pensiero incombe l’obbligo di assicurare, in condizioni di imparzialità e obbiettività, la possibilità potenziale di goderne –  naturalmente nei limiti che si impongono per questa come per ogni altra libertà, e nei modi richiesti dalle esigenze tecniche e di funzionalità – a chi sia interessato ad avvalersene per la diffusione del pensiero nei vari modi del suo manifestarsi. Donde l’esigenza di leggi destinate a disciplinare tale possibilità potenziale e ad assicurare adeguate garanzie di imparzialità nel vaglio delle istanze di ammissione all’utilizzazione del servizio non contrastanti con l’ordinamento, con le esigenze tecniche e con altri interessi degni di tutela (varietà e dignità dei programmi, ecc.)[4].

Tutto a posto dunque? Niente affatto. La storia della Rai nei decenni successivi – tra dibattito intenso sulla riforma, varo della riforma stessa nel 1975, rivoluzioni dell’assetto complessivo con la nascita delle emittenti private e dei network commerciali, legge Mammì, legge Gasparri – dimostra che quel “difetto d’origine” – aggravato dalle modalità in cui si giunge a un duopolio e dal duopolio stesso – non sarà mai sanato: il criterio dell’occupazione da parte della maggioranza, o dei partiti, sarà costantemente riproposto, persino nell’era dell’impero della comunicazione via web.


[1] Citato da Guido Crainz, Fra Eiar e Rai, L’altro dopoguerra. Roma e il Sud 1943-1945, a cura di Nicola Gallerano, Prefazione di Guido Quazza, Introduzione di Enzo Forcella, Milano, Franco Angeli, 1985, p. 514, e Roberto De Napoli, Il firmamento sonoro, in Ripensare Alvaro, a cura di Vito Teti e Pasquale Tuscano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2020, p. 108.

[2] Citato in Franco Monteleone, Storia della Rai dagli alleati alla DC 1944-1954, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 71.

[3] Sentenza n. 59 del 1960 (giurcost.org)

[4] Ibidem.

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