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La lezione di Selma: il lungo cammino verso i diritti civili tra passato e presente

E’ difficile sorprendersi ancora di fronte alla quantità, all’efferatezza e alla pervasività della violenza razzista nella storia americana, indagata in profondità da decenni di rigorosa ricerca storica e raccontata con i linguaggi e registri più disparati, dal lirismo struggente di Strange Fruit (1937), poi divenuta un classico nell’interpretazione di Billie Holiday, fino a Django Unchained, il visionario Western abolizionista di Quentin Tarantino (2012) e 12 Years a Slave (2013), asciutta e drammatica versione cinematografica di una classica memoria della schiavitù.

Eppure uno dei tratti di maggior impatto emotivo e forza narrativa di Selma, diretto dalla regista afro-americana Ava DuVernay, è proprio il racconto di questa violenza sistematica e multiforme: quella terroristica della bomba che aveva ucciso quattro bambine in una chiesa battista di Birmingham, Alabama nel settembre del 1963; quella dell’intimidazione quotidiana del pugno sferrato da un sostenitore della «white supremacy» a Martin Luther King in pieno volto, a freddo, nella hall di un hotel della cittadina dell’Alabama; e quella istituzionale organizzata dallo sceriffo Jim Clark che, sotto gli occhi degli inviati dei maggiori media nazionali, si abbattè contro i dimostranti che cercavano di attraversare l’Edmund Pettus Bridge di Selma il 7 marzo 1955, passato alla storia del movimento dei diritti civili come «bloody Sunday».

Quel giorno King era rimasto a Atlanta, da dove mancava da troppo tempo, e il fatto che uno degli episodi cruciali del film lo veda tra i protagonisti indiretti, quasi dietro le quinte, è indicativo di alcune delle scelte della regista, che ha anche avuto una parte importante nella riscrittura della sceneggiatura originale. In primo luogo Selma non è un bio pic ma un film corale che colloca il ruolo centrale di King all’interno di un gruppo dirigente coeso, di un movimento plurale e non privo di tensioni interne (es. tra la Southern Christian Leadership Conference e il più radicale Student Nonviolent Coordinating Committee), e di una partecipazione popolare «dal basso» che è frutto del lavoro organizzativo di dirigenti nazionali e attivisti locali. In secondo luogo è questa dimensione collettiva della mobilitazione degli afro-americani che viene indicata come forza decisiva del cambiamento, almeno quanto la leadership democratica e antieroica di King e certamente più del progetto riformista di Lyndon Johnson, che anzi vediamo costretto a subire la strategia del movimento e a rincorrere, non a determinare, il corso degli eventi.

«You’re an activist, I’m a politician», urla Johnson a King in un altro passaggio importante del film. L’interazione tra il leader del movimento e il presidente – in particolare le loro divergenze sul Voting Rights Act (1965) – è l’aspetto del film che ha generato più controversie sulla sua fedeltà ai fatti. Non solo vecchi collaboratori di Johnson, come Joseph Califano, ma anche noti commentatori liberal come la columnist del «New York Times» Maureen Dowd hanno reagito con stizza al ritratto del presidente: un riformatore riluttante, spesso  paternalista nel suo atteggiamento verso King e, quel che è peggio, complice silenzioso della campagna di discredito e ricatti condotta da Edgar J. Hoover (peraltro era stato Robert Kennedy in qualità di ministro della giustizia dell’amministrazione precedente a autorizzare le intercettazioni telefoniche del bureau contro King). In effetti il film non è al suo meglio in questo passaggio: è storicamente poco accurato e ci restituisce un Johnson anonimo e incolore, cosa singolare per una figura certamente non priva di tratti pittoreschi e forti passioni politiche. Ma liquidare Selma con l’accusa di revisionismo, o peggio di scorrettezza, che gli viene rivolta su questo punto pare pretestuoso e scarsamente rilevante: non è un documentario né un film su Johnson, e il suo revisionismo riguarda la filmografia, più che la storiografia, sui diritti civili. Come ha affermato la stessa DuVernay, l’obiettivo era mettere in discussione una lunga tradizione cinematografica basata sulla figura del «white savior», dell’eroe bianco che guida la lotta per la giustizia razziale con gli afro-americani al seguito in ruoli più o meno subordinati. Da questo punto di vista Selma, pur pagando il prezzo di una regia a tratti lenta e prevedibile, colpisce nel segno e si rivela, se non un grande film, una ottima lezione di storia.

Selma, infine, è uno sguardo sul passato che è anche un documento sul presente. La sentenza della Corte Suprema che nel 2013 ha indebolito proprio il Voting Rights Act, le misure che in vari stati di fatto introducono limitazioni al diritto di voto delle minoranze e infine i ripetuti casi di violenza della polizia su cittadini afroamericani innocenti hanno riaperto vecchie ferite, che i grandi cambiamenti verificatisi dalla metà degli anni sessanta a oggi non rendono meno dolorose. In questo quadro Selma è a sua volta un «agente di storia», oltre che un importante contributo ad un discorso sul passato che non può essere dominio esclusivo degli storici.

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