Di Massimo De Giuseppe (Università IULM)
Alla vigilia della visita apostolica di Francesco in Messico, «il Venerdì di Repubblica» ha dedicato copertina e articolo di testa al viaggio, aprendo con la foto di un ragazzo con sombrero e maschera da calavera (teschio) e un titolo ad effetto come Il papa all’inferno. Nelle settimane precedenti il paese latinoamericano, sempre più sospeso tra «nord» e «centro» America, era improvvisamente tornato all’onore delle sonnolente cronache esteri italiane, per due fatti eclatanti: l’uccisione (il giorno stesso del suo insediamento) di Gisela Mota, alcaldesa (sindaca) di Temixco, un grande sobborgo popolare di Cuernavaca, e, soprattutto, la cattura del ricercato numero uno tra i boss del narcotraffico globale, Joaquín «el Chapo» Guzmán. Sono subito scattate nuove e prevedibili turbolenze per l’immagine di un paese ancora scosso dai misteri intorno alla tragica scomparsa di 43 studenti della scuola magistrale rurale Isidro Burgos di Ayotzinapa, consumatasi nel settembre del 2014, a meno di due anni dell’insediamento alla presidenza di Enrique Peña Nieto, il protagonista del ritorno del Partido revolucionario institucional (Pri) sulla «silla del águila». Le azioni intraprese dal governo federale, le inchieste indipendenti promosse dall’Universidad Autónoma Nacional de México (Unam) con esperti forensi dell’Università di Innsbruck e la missione della Comisión Interamericana de Derechos Humanos dell’Organizzazione degli stati americani non hanno ancora portato a una soluzione del caso, lasciando la sensazione una pericolosa e diffusa commistione tra elementi di polizia corrotti (a più livelli, spesso intersecati tra loro) e organizzazioni criminali: un intreccio sempre più glocal tra controllo del territorio e narcotraffico internazionale.
Il servizio de «il Venerdì» si è così articolato intorno a una grottesca presa in giro, a firma Paco Ignacio Taibo II, dell’intervista alternative di Sean Penn al «Chapo» Guzmán per il periodico mainstream «Rolling Stone»[i], seguita da una più articolata riflessione dello scrittore Don Winslow sui possibili effetti della cattura del boss. L’articolo di punta era però il reportage di Giovanni Porzio, Orrori e peccati di un paese discarica, con foto dal forte impatto e interviste raccolte a Ciudad Nezahualcóyotl, una delle aree suburbane storicamente più complesse del paese; una lunga striscia di case basse che unisce la capitale (la «Ciudad inmensa» descritta da Octavio Paz quarant’anni orsono)[ii] all’Estado de México. Una realtà sorta negli anni ’60, in una fase critica del boom urbanistico del Distrito federal, segnata oggi da precarietà, droga e proliferare di violente pandillas (bande armate) che minacciano la tenuta di una lunga serie di originali esperimenti di aggregazione sociale[iii].
Però il Messico è ben più complesso della pur sintomatica Ciudad Neza, e questo è il primo problema da richiamare. Da un lato il paese è infatti quello in cui la «guerra al narco» lanciata nel 2006 dal presidente Calderón Hinojosa, del Partido de Acción Nacional (Pan), sulla tacita base del Plan Mérida concordato con l’amministrazione Bush jr., ha avuto come contropartita un bilancio di diverse decine migliaia di vittime e un incremento degli indici di corruzione e di insicurezza. Al contempo, con i suoi 124 milioni di abitanti (il 46% dei quali sotto i 24 anni) e un territorio di quasi due milioni di km2, il Messico è oggi la quindicesima economia mondiale, con un Pil stimato nel 2015 in 1.164 miliardi di dollari (crescita annua del 2,5%) e un Pil pro-capite da 17.566 dollari (contro i 15.838 del Brasile)[iv]. Grande open economy affacciata su due oceani, patria del secondo uomo più ricco del mondo (Carlos Slim Helu, patron di América Móvil e Telmex), membro dei G20, del Nafta, della Alianza por el Pacífico, del Tpp, del Sica e della Celac, firmatario di un trattato di libero commercio con l’Ue (Tlcuem), secondo il World Economic Forum il Messico è oggi la decima economia mondiale per capacità di attrazione di investimenti diretti (Ide) e l’undicesima per potenziale del mercato interno, dotata di un’efficace rete di servizi di un vivace sistema accademico, di ricerca scientifica e tutela del patrimonio.
Le recenti riforme strutturali, a cominciare da quella energetica (in attesa di quelle fiscale e finanziaria), che ha posto fine al monopolio dell’impresa pubblica Pemex (figlia della «nacionalización petrolera» voluta da Lázaro Cárdenas nel 1938), hanno rafforzato la scelta liberista intrapresa negli anni ’70 e acceleratasi nel decennio successivo, sulla scia del boom delle imprese maquiladoras sorte lungo il confine settentrionale e della creazione di free tax areas adatte a testare i nuovi meccanismi di delocalizzazione industriale[v]. Il dato che colpisce, analizzando le evoluzioni dell’ultimo decennio, sta proprio nel fatto che violenza e accelerazione nell’apertura dei mercati non si elidono, sembrano semmai facce diverse del processo d’indebolimento del vecchio stato federale[vi], consolidatosi durante il porfiriato (all’alba del ’900) e ridefinitosi nella stagione postrivoluzionaria. Se l’indebolimento del modello statual-nazionale sta producendo in Europa forme di impoverimento degli enti locali e degli investimenti «pedagogici», mettendo alla prova le forme di contrasto alla criminalità organizzata e riducendo la capacità programmatica della politica, nel contesto messicano tale processo si è estremizzato fino a manifestare una difficoltà nel mantenere il pieno controllo di alcune aree del territorio, quelle in cui nell’ultimo decennio la violenza ha ridefinito i propri caratteri e le proprie forme di pervasività[vii].
Tornando allora ai titoli ad effetto de «il Venerdì», pur salvando le intenzioni di denuncia delle emergenze sociali e della gravità delle violenze (esplicite ed implicite), sorge un dubbio intorno agli eccessi di riduzione della complessità. In particolare il rischio è quello di generare una sorta di effetto di etnicizzazione di quella violenza che sta attanagliando in maniera dirompente (e per certi versi innovativa) alcune aree del continente americano: dai barrios bravos messicani alle favelas brasiliane, passando per il Centroamerica sconvolto dalle maras (Honduras ed El Salvador sono i primi due paesi al mondo per tasso di morti violente). Esasperare l’immagine di paesi che sembrano affogare in «discariche ripiene di cadaveri» o «quartieri infernali», per evocare le litografie di Posada, più che un servizio di denuncia di un problema drammatico rischia di riesumare gli stereotipi e l’orrore per l’esotico latino che, dai romanzi di Graham Greene fino alle recenti produzioni di Rodríguez e Tarantino, ha alimentato un certo immaginario occidentale.
In realtà il Messico dei contrasti, diviso tra violenza e ricchezza, umanità e disordine, non è così lontano da noi come sembrerebbe dalla narrazione mediatica ma è parte di un sistema globale sempre più integrato. Tale stereotipizzazione sembra infatti rivestire un effetto assolutorio, separando le violenze messicane da un circuito internazionale del narcotraffico e delle armi che agisce secondo logiche modernissime e transnazionali, come richiamato ripetutamente nei report dell’United Nation Office on Drugs and Crime; un discorso che vale naturalmente anche per i meccanismi di sfruttamento socio-economico dei processi emigratori privi di governance sovranazionale e che avvicina drammaticamente il Río Bravo al Mediterraneo. Centralina del commercio messicano (legale e illegale) sono infatti gli Stati Uniti che da soli assorbono oltre l’80% dei flussi economici del paese, tanto che da tempo diversi studiosi stanno ripensando i limiti geopolitici del mondo «méxico-americano»[viii]. Il crescente peso politico, culturale, economico e sociale dei chicanos (avanguardia della composita comunità latina negli States) ne è in fondo un sintomo, che produce – come va emergendo anche nelle primarie in corso negli Usa, via via che si spostano verso sud – un intreccio sempre più inestricabile. Allargare idealmente la frontiera, la distanza simbolica tra The Border e la Línea, ben oltre i nuovi muri evocati da Donald Trump, sembra infatti produrre un pericoloso effetto mediatico di separazione e isolamento che va esattamente in direzione contraria rispetto alla realtà, segnata dall’accelerazione dei processi di globalizzazione e dalla silenziosa costruzione di dinamiche «glocal», rispetto a territorio e popolazione. In termini di violenza ad esempio, proprio la territorializzazione della globalità ha fatto sì che vecchi e nuovi gruppi di potere cominciassero ad importare dall’esterno ricette mafiose di controllo del territorio, ricodificando le vecchie forme di violenza e colpendo in maniera inedita interi settori della nazione: dalla stampa alla popolazione, dalla classe media ai gruppi più marginali, dai migranti interni a quelli centroamericani[ix], dalle ragazze impiegate nel settore informale agli indigeni senza terra.
L’intensa visita apostolica di papa Francesco, dal 12 al 18 febbraio, ha dunque rappresentato un passaggio rilevante del pontificato proprio perché ha colto tale complessità e ha tolto il Messico dalle gabbie mediatiche, collocandolo sullo scenario universale che gli compete. Nonostante alcune critiche interne, piovute dai reduci dell’anticlericalismo istituzionale, così come da alcuni settori del conservatorismo cattolico e da esponenti della società civile, che hanno denunciato il mancato incontro del papa con i genitori degli studenti di Ayotzinapa, il viaggio ha colpito per la sua capacità di toccare i nodi profondi che oggi uniscono il Messico al mondo. Nodi tutt’altro che superficiali che, pur guardando al futuro, hanno chiamato in causa le eredità del passato, della conquista, della stagione coloniale, della rivoluzione, della modernizzazione post «década perdida», senza reticenze sul ruolo della chiesa nei passaggi di trasformazione dell’identità nazionale e delle strutture statuali. Quello del papa è stato, paradossalmente, un viaggio attraverso la modernità: quella economico-finanziaria, quella brutale legata alle fratture sociali, e quella creativa e vitale che attinge all’incredibile serbatoio di pluriculturalità del paese. Tale approccio è emerso in modo costante, negli incontri con le autorità civili (sotto i murales del Palacio Nacional con cui Diego Rivera collocò la storia nazionale messicana all’interno di quella universale) ma anche nelle sedi più prettamente ecclesiali. Dal discorso nella cattedrale capitalina, con il suo deciso monito alla responsabilizzazione sociale (anche dell’episcopato) agli appelli all’unità lanciati dalla basilica di Guadalupe; dall’Angelus contro la violenza celebrato nella spianata di Ecatepec fino alla sentita esortazione ai giovani, nel Michoacán, scosso dagli scontri tra templarios e milizie di autodifesa.
Una formula che ha riverberato soprattutto nel simbolico pellegrinaggio dalla frontera Sur, il Chiapas indigeno, plurietnico e plurilinguistico, a quella Norte, rappresentata da Ciudad Juárez, città di maquiladoras e feminicidios, flussi di migranti e commerci incessanti. «En esa orilla del mundo»[x], Francesco ha chiuso simbolicamente il suo viaggio, guardando ben oltre la frontiera, quando invocava «techo, trabajo y tierra»[xi]. Nell’epilogo di Que Viva Mexico, Sergej Ėjzenštejn – che dopo aver girato il film avrebbe subito un arresto negli Usa e una rieducazione forzata in patria -, inquadrava una maschera di calavera sotto cui si rivelava un volto del futuro: un bimbo sospeso tra i rumori della città e un profumo antico di mais.
[i] http://www.rollingstone.com/tv/news/see-sean-penn-discuss-el-chapo-in-60-minutes-interview-20160118
[ii] O. Paz, Hablo de la Ciudad, in Vuelta, 118, Seix Barral, Barcelona 1976.
[iii] A. Rodríguez Kuri, Historia política de la Ciudad de México: desde su fundación hasta el 2000, El Colegio de México, México 2010.
[iv] Economist Intelligence Unit, Mexico Country Report, december 2015, http://country.eiu.com/Mexico
[v] T. Bertaccini (a cura di), Il tramonto del regime rivoluzionario: Messico: 1979-2010, Otto, Torino 2012 A. Dawson, Il sogno del primo mondo. Il Messico dal 1989, tr. it., Edt, Roma 2008.
[vi] V. Ronchi, La metamorfosi della rivoluzione, Mimesis, Milano 2015.
[vii] Si veda l’interessante dossier su istituzioni statuali e violenza nello speciale La guerra de los seis años in «Nexos» 420, dicembre 2012 (pp. 25-64), con interventi, tra gli altri, di José Merino (Cuerpos sin nombres) e Alejandra Sota (Operativos y violencia).
[viii] S. Núñez García, ¿Qué es Estados Unidos? (What Is the United States?), Fondo de Cultura Económica, México, 2008.
[ix] D. Quemada Diez, La jaula de oro, Messico-Spagna 2013.
[x] Dal testo de La línea title track dell’omonimo album di Lila Downs (Narada, 2001).
[xi] http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/february/documents/papa-francesco_20160217_messico-lavoro.html