Di Enrico Palumbo.
Il recente film La verità negata (titolo originale Denial, 2016), del regista britannico Mick Jackson, ripropone il tema sempre attuale del negazionismo della Shoah[1]. Nonostante la scarsa diffusione nelle sale cinematografiche italiane – a cui si spera che, conformemente ai suoi doveri di servizio pubblico, possa porre rimedio la Rai con un’adeguata programmazione televisiva –, la pellicola può avere un certo interesse anche al di fuori del ristretto mondo degli specialisti.
La vicenda narrata è abbastanza nota e ricalca l’autobiografico volume della storica americana Deborah Lipstadt, History on trial (2005), pubblicato in italiano da Mondadori in occasione del lancio del film[2]: nel 1993 la studiosa completò una cruciale opera sul negazionismo, Denying the Holocaust, nella quale trattava, tra le altre, le tesi sostenute nella sua vasta attività di pubblicista e conferenziere dal britannico David Irving, che ella definì «Holocaust denier», aggiungendo che i negazionisti «misstate, misquote, falsify statistics, and falsely attribute conclusions to reliable sources»[3]. Attribuendogli posizioni neofasciste, lo accusava di piegare la realtà per fini politici[4]. Irving, infine approdato al negazionismo dopo un percorso che lo aveva visto cominciare con un tentativo di rivalutare la figura di Hitler ridimensionandone le responsabilità sulla Shoah[5], decise nel 1996 di portare l’autrice e la casa editrice in tribunale. Con un preciso calcolo, Irving scelse di intentare la causa non negli Stati Uniti, dove la legislazione sulla libertà di parola lo avrebbe costretto a dimostrare la malafede di Lipstadt, ma in Gran Bretagna (sede della Penguin Books, la società detentrice della divisione Plume, che aveva edito il libro), dove la professoressa, se non voleva sostenere la tesi del fraintendimento delle sue parole, avrebbe dovuto giustificare la veridicità delle proprie affermazioni. La strategia difensiva sviluppata dai legali di Lipstadt, che in caso di sconfitta avrebbe subito un tracollo finanziario, ma avrebbe anche conferito un riconoscimento all’opera di Irving, si concentrò sulla dimostrazione della veridicità delle affermazioni della storica: bisognava cioè dimostrare che Irving era un negazionista antisemita e non che la Shoah aveva avuto luogo («Non serviva un tribunale per dimostrarlo»)[6].
Nel film sono ben rappresentati alcuni snodi cruciali della vicenda: a partire dal confronto tra la professionale accuratezza e al contempo l’ampio respiro del metodo storico di Lipstadt (l’attrice Rachel Weisz) e il procedimento manipolatorio, corroborato da un’abile capacità retorica, di Irving (personaggio di cui l’attore Timothy Spall ha interpretato con maestria quello straordinario carisma che gli ha consentito di emergere dal sottobosco del negazionismo). Ma anche la scelta dei legali della difesa di non far parlare la professoressa in aula e di non esporre i sopravvissuti ai campi di sterminio a un umiliante e insolente interrogatorio da parte dello stesso Irving: quest’ultimo, che aveva deciso di non ricorrere a un avvocato ma di provvedere da sé alla propria difesa, voleva da un lato spettacolarizzare l’evento giudiziario e dall’altro legittimare in un autorevole contesto pubblico il discorso negazionista. Gli avvocati colsero quindi l’importanza di smontare le tesi di Irving sull’inesistenza delle camere a gas ad Auschwitz, luogo simbolo della Shoah e conseguentemente della sua negazione.
I legali di Lipstadt si avvalsero del supporto di alcuni storici, tra cui il britannico Richard J. Evans, l’americano Christopher Browning e il tedesco Peter Longerich, chiamati come testimoni della difesa, riuscendo nella non semplice impresa di non adeguarsi al registro di Irving, il cui intento era chiaramente quello di essere riconosciuto come interlocutore di pari livello, e quindi come storico: se è vero che, secondo la celebre asserzione di Pierre Vidal-Naquet, non bisogna discutere con i negazionisti, ma è necessario discutere dei negazionisti, Lipstadt e i suoi testimoni di fatto non interloquirono con Irving – con cui il confronto paritario era impossibile per il rifiuto di quest’ultimo di accettare i fondamenti del dialogo scientifico, basato sull’accettazione del principio di realtà – ma ne demolirono il metodo e gli assunti.
La sentenza, favorevole alla storica americana, fu pronunciata nel 2000 e riconosceva l’esatta rappresentazione che Lipstadt aveva fatto della natura ideologica e delle origini culturali antisemite dell’approccio di Irving alla Shoah. In particolare, nel dispositivo della corte, era rilevato il modo «perverso e vergognoso» di Irving di trattare «l’evidenza storica», mentre si sottolineava la sua volontà di «distorcere, manipolare o interpretare in modo parziale le prove, così da adeguarle ai suoi preconcetti», falsando «deliberatamente l’evidenza per farla combaciare con le sue convinzioni politiche»[7].
Il film è arrivato in Italia a pochi mesi dall’approvazione della legge 115/2016, che punisce la negazione della Shoah, dei crimini di genocidio, di quelli contro l’umanità e dei crimini di guerra, con una pena da due a sei anni di reclusione. A conclusione di un dibattito durato diversi anni, che ha visto politici, storici e giuristi confrontarsi sul tema – si segnalano in particolare la posizione contraria alla legge della Sissco, «in sintonia con la stragrande maggioranza degli storici a livello internazionale»[8], e il sostegno alla legge espresso dall’Ucei[9] –, si è dunque posto giuridicamente un punto fermo nella definizione del problema[10].
E’ interessante tuttavia notare che il successo di Lipstadt in tribunale non maturò in funzione di una legge sul negazionismo: il giudice Charles Gray non stabilì con la sua sentenza una verità storica, per quanto non poté esimersi dall’appoggiarsi largamente alle risultanze della ricerca degli storici, ma circoscrisse in modo molto preciso i confini entro i quali il diritto si poteva esprimere intorno al dibattito storiografico. Gray, grazie anche all’intervento dei testimoni chiamati dai difensori di Deborah Lipstadt, riconobbe che Irving aveva falsificato le prove in funzione delle sue finalità ideologiche, lasciando agli storici la prerogativa di fare ricerca sulla Shoah[11]. Il labile confine tra verità storica e verità giudiziaria, nella lettura del lungo dispositivo della sentenza, si fece molto sfumato in diversi punti, fino a confondere i due piani, ma le ferme affermazioni del giudice secondo cui non era sua intenzione invadere il campo degli storici hanno un valore in sé: Gray, esperto di diritto, riconosceva l’autorità degli esperti di storia, attingendo alle loro fonti piuttosto che tentando di sovrapporvisi.
Ecco quindi che il film ci conduce verso un’ulteriore riflessione. Anzitutto, La verità negata ci racconta un’epoca che appare per certi versi ormai piuttosto lontana, quella cioè in cui il negazionismo si esauriva in seminari e pubblicazioni, circoscritti a un ambito generalmente ristretto di cultori e fanatici, in genere in contatto e scambio tra loro. Oggi la realtà è radicalmente mutata. Nel 2014, il convegno della Sissco intitolato Shoah e negazionismo nel Web, accanto alle opportunità per la ricerca offerte da internet, ci mostrava l’impressionante scenario di una segmentazione del negazionismo favorita dalla moltiplicazione di siti e di relazioni intessute nei social network[12]. Con la preoccupante conseguenza di un allargamento della tradizionale platea a nuovi ambienti, costituiti da persone che, per la loro fragile capacità di discernimento critico dovuta a un’inadeguata formazione scolastica, sono maggiormente esposte alle argomentazioni distorte e alle manipolazioni. Come è noto, non è un problema che riguarda soltanto la storia, ma tocca drammaticamente anche altri ambiti, come quelli dell’informazione medica e politica.
Oltre ai numerosi siti internet esplicitamente antisemiti e negazionisti oggi rilanciati dai social network[13], il discorso si potrebbe allargare a quella moltitudine di siti di divulgazione pseudo-storica che, ignorando il pluralismo culturale presente nel mondo accademico e ponendosi contro la «verità storica ufficiale» (pertanto non autentica, va da sé), propongono riletture superficiali e parziali di fenomeni complessi, con metodi analoghi a quelli utilizzati dai negazionisti: l’uso parcellizzato delle fonti e dei testi, isolando ciò che confermerebbe la propria tesi; la «reiterazione decontestualizzata» dell’interpretazione di un documento, in un sistema secondo il quale «ciò che conta non è più il riscontro logico, ma l’investimento ideologico»[14]; l’ossessione per la confutazione di dettagli, demolendo i quali si pretende di demolire l’intera ricostruzione storica fin qui consolidata; la citazione incrociata di siti e testi ideologicamente vicini l’un l’altro che, ripetendo gli stessi concetti infondati, danno l’impressione di una maggiore legittimazione della propria tesi; la negazione dell’autorevolezza degli studi accademici, in genere accusati di essere mossi da finalità ideologiche o da interessi politici ed economici. E si potrebbe andare oltre. La sedimentazione di questo metodo non scientifico, applicato a diversi contesti storiografici, favorisce la recezione delle argomentazioni negazioniste della Shoah da parte dei fruitori di tali pagine web[15].
Un argine a questa deriva non è certo dato da una legge, che difficilmente può perseguire siti internet registrati all’estero o migliaia di utenti che su Facebook rilanciano un articolo negazionista, o quelli ancor più numerosi che appongono un “like” a una vignetta o a un post negazionista. Un sito oscurato viene facilmente rimpiazzato da un altro con dominio differente, costringendo le autorità a inseguire senza sosta i propagandisti dell’odio. Forse una diversa (ragionata e responsabile) presenza degli studiosi sul web e sui social network, come aggiornamento di una funzione pubblica un tempo esercitata sui giornali, nei convegni o nelle scuole di partito, potrebbe avere una sua logica. E’ certamente una forma di quel recupero di una posizione degli storici nel discorso pubblico, richiamata di recente da Fulvio Cammarano, che tra l’altro ha auspicato anche un ripensamento dell’insegnamento della storia nei curricula scolastici[16].
Un messaggio che la vicenda giudiziaria di Deborah Lipstadt ci trasmette, e su cui potremmo trovare elementi di riflessione, è l’affermazione dell’autorità degli specialisti: il potente e certamente colto giudice Gray si rifiutò di entrare in un dibattito proprio di specialisti di un altro settore. Una sentenza sull’autenticità della Shoah lo avrebbe mediaticamente ricoperto di fama, ma il suo tentativo di tirarsi fuori dal dibattito storiografico, appellandosi all’autorità degli studiosi, vale molto di più. Per gli storici e non solo.
[1] Sul negazionismo, si rimanda agli studi, tra gli altri, di P. Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e la Shoah, Roma, Viella, 2008; M. Shermer – A. Grobman, Negare la storia. l’olocausto non è mai avvenuto: chi lo dice e perché, Roma, Editori Riuniti, 2002; V. Pisanty, Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Milano, Bruno Mondadori, 2012; C. Vercelli, Il negazionismo. Storia di una menzogna, Roma-Bari, Laterza, 2013.
[2] D.E. Lipstadt, La verità negata: la mia battaglia in tribunale contro chi ha negato l’Olocausto, Milano, Mondadori, 2016 (ed. or. History on trial: my day in court with David Irving, New York, Ecco, 2005). In italiano era già disponibile il libro di D.D. Guttenplan, Processo all’Olocausto: due storici a confronto in una causa che ha discusso un tema cruciale e lacerante, Milano, Corbaccio, 2001 (ed. or. The Holocaust on trial, New York, Norton, 2001).
[3] D.E. Lipstadt, Denying the Holocaust: the growing assault on truth and memory, New York, Plume, 1993, p. 111.
[4] Ivi, p. 181.
[5] D. Irving, Hitler’s war, New York, Viking press, 1977.
[6] D.E. Lipstadt, La verità negata cit., pp. 52-55.
[7] Cit. in ivi, pp. 342-343. L’intera sentenza ([2000] EWHC QB 115) è consultabile in: www.bailii.org/ew/cases/EWHC/QB/2000/115.html.
[8] www.sissco.it/articoli/negazionismi-dichiarazione-sissco. Il testo si richiama a: www.sissco.it/download/attivita/Dichiarazione_SISSCO_su_modifiche_art._414_cp.pdf.
[9] Legge negazionismo, premiata la linea dell’Unione, «Pagine ebraiche», VIII, 7 (2016), pp. 4-5.
[10] Un problema dai risvolti particolarmente complessi e sfuggenti, come dimostra per esempio la discussione intitolata Storia, verità, diritto, a cura di E. Betta e R. Romanelli, «Contemporanea», XII, 1 (2009), pp. 105-155, maturata poco tempo dopo il primo tentativo, avanzato nel 2007 dal ministro della Giustizia Clemente Mastella, di introdurre una legge contro il negazionismo: il progetto fu contrastato da una netta presa di posizione di un gruppo rappresentativo degli storici italiani. Cfr: http://storicamente.org/02negazionismo.
[11] [2000] EWHC QB 115.
[12] Shoah e negazionismo nel Web, Roma 10-11 aprile 2014. In particolare la sessione sulla diffusione del negazionismo in rete è stata animata da Renato Moro, Claudio Vercelli, Valentina Pisanty, Gabriele Rigano, Lutz Klinkhammer, Emiliano Perra.
[13] Qualche dato si può ricavare nella relazione dell’Osservatorio sul pregiudizio antiebraico del Cdec, intitolata Alcune osservazioni sull’antisemitismo 2007-2010, a cura di S. Gatti e B. Guetta.
[14] C. Vercelli, Il negazionismo cit., pp. 179-180.
[15] Le tecniche discorsive negazioniste sono state brillantemente affrontate nel volume di V. Pisanty, L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Milano, Bompiani, 1998.
[16] F. Cammarano, Avete emarginato la storia, intervista di A. Carioti, «La Lettura – Corriere della Sera», 19 giugno 2016.