Una tavola rotonda con Stefano Cavazza, Arturo Marzano e Stefano Battilana sulla serie televisiva Fauda.
Premessa
Fauda (caos) è una serie televisiva di produzione israeliana distribuita da Netflix in varie parti del globo a partire dal 2015[1]. Si tratta di una fiction ambientata nei territori palestinesi occupati della West bank, che narra le azioni di una unità speciale israeliana infiltrata in quei territori. Dal punto di vista tecnico la serie segue il modello classico del telefilm d’azione con elementi del thriller, che spesso risulta essere di successo e che vanta diversi esempi, come Strike Back[2]. La costruzione del prodotto televisivo e sicuramente di alta qualità certo migliore di altri prodotti che affrontano temi di attualità nell’area mediorientale a volte con finalità politiche e propagandistiche come, per esempio, Corvi neri (Gharabeeb Soud)[3], la serie sull‘Isis finanziata dagli Emirati Arabi Uniti[4]. Qui però vi sono due differenze: prima di tutto la serie non è ambientata in una realtà fittizia che appare verosimile, ma che resta distante dall’esperienza comune. Fauda è sì una storia di fantasia, ma si colloca in una concreta realtà storica che non è per così dire consegnata alla memoria o ai libri, e il cui problema – l’occupazione israeliana– resta un fenomeno di attualità e che ha segnato e segna ancor oggi la vita delle persone. Se anche i suoi personaggi e la trama sono di pura finzione, il prodotto è oggettivamente diverso da una action story, perlomeno lo è per i destinatari dell’area. Diverso è il discorso per i telespettatori di aree distanti dal teatro medio-orientale che possono leggere la serie come semplice telefilm d’azione. In secondo luogo, uno degli ideatori della serie (Lior Raz), che ha anche il ruolo di protagonista, ha operato in passato come agente di una unità speciale e quindi la narrazione che ne deriva si poggia sul realismo di un’esperienza concreta. La serie ha ottenuto un grande successo internazionale ed ha ricevuto elogi, ma anche numerose critiche[5]. In Israele il successo della serie sembra dipendere dalla possibilità di darne una lettura diversa a seconda degli orientamenti politici. In una intervista uno dei produttori sosteneva di aver avuto riscontri positivi sia da giornali di destra che di sinistra, un giudizio forse troppo ottimista[6]. Se forse per gli israeliani, la serie conferisce un certo grado di umanità ai palestinesi e probabilmente genera un certo grado di empatia, essa resta – a detta dei suoi critici – segnata dal prevalere della visione degli occupanti[7]. In campo palestinese la serie ha sollevato critiche proprio per il fatto di non prendere in considerazione la realtà dell’occupazione in quanto tale, ma anzi di trasformarla in una forma di intrattenimento[8] e nel restituire un’immagine dei palestinesi non priva di stereotipi[9]. Al di là delle intenzioni dei produttori, la qualità del prodotto conferisce un elevato grado di realismo alla serie, ma nello stesso tempo solleva una serie di interrogativi su come essa venga recepita e su come contribuisca a diffondere un senso comune sul problema dei territori occupati. Per questa ragione nella rubrica cinepresa e storia di «Ricerche di storia politica» è parso opportuno pubblicare alcune considerazioni sulla serie mostrando anche le differenti ricezioni dello stesso prodotto. Lo scopo è offrire una riflessione contestualizzata su un esempio di fiction che si intreccia con la storia e che come tale contribuisce a diffondere un senso comune su di essa.
[1] Fauda (2015-), https://www.imdb.com/title/tt4565380/?ref_=fn_al_tt_1 (ultimo accesso 7 novembre 2020).
[2] Strike Back (2010-2020), https://www.imdb.com/title/tt1492179/?ref_=fn_al_tt_1 (ultimo accesso 7 novembre 2020).
[3] Gharabeeb Soud (2017), https://www.imdb.com/title/tt7356518/?ref_=fn_al_tt_1 (ultimo accesso 7 novembre 2020).
[4]Donatella Della Ratta, Fighting ISIL through TV drama: The case of Black Crows, «Al Jazeera» 19 giugno 2017, https://www.aljazeera.com/features/2017/06/19/fighting-isil-through-tv-drama-the-case-of-black-crows/ (ultimo accesso 7 novembre 2020)
[5] David M. Halbfinger, “Fauda”, an Israeli TV Hit, let viewers Escape – Into the conflict, in «New York Times» 22 maggio 2018, https://www.nytimes.com/2018/05/22/arts/television/fauda-an-israeli-tv-hit-lets-viewers-escape-into-the-conflict.html (ultimo accesso 7 novembre 2020).
[6] George Zeidan, ‘Fauda’ Isn’t Just Ignorant, Dishonest and Sadly Absurd. It’s anti-Palestinian Incitement , https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-fauda-isn-t-just-ignorant-dishonest-and-absurd-it-s-anti-palestinian-incitement-1.8788542 (ultimo accesso 6 novembre 2020)
[7] Rachel Shabi, The next Homeland? The problems with Fauda, Israel’s brutal TV hit, in “ The Guardian” 23 maggio 2018, https://www.theguardian.com/tv-and-radio/2018/may/23/the-next-homeland-problems-with-fauda-israel-brutal-tv-hit (ultimo accesso 6 novembre 2020)
[8] Orly Noi, Israel’s Fauda: Immoral, exploitative drama turns Palestinian suffering into entertainment, 7 gennaio 2020 https://www.middleeasteye.net/opinion/fauda-turning-israels-victims-entertainment (ultimo accesso 6 novembre 2020)
[9] https://www.youtube.com/watch?v=LYCPODubekA
La Contestualizzazione di Fauda
Protagonista di Fauda è l’unità dei cosiddetti mista‘arvim, ebraicizzazione del termine arabo musta‘ribīn, che significa “coloro che vivono tra gli arabi”. Tale espressione stava a indicare gli ebrei che risiedevano in contesti arabi tra il VII secolo, l’inizio dell’espansione dei califfati arabi, e il 1492, che segnò come è noto l’espulsione degli ebrei dalla Spagna e il loro arrivo nei territori dell’Impero Ottomano. Nell’Israele contemporaneo, i mista‘arvim sono membri di unità speciali delle Forze armate israeliane che vivono nei Territori occupati palestinesi con un’identità falsa, comportandosi come se fossero a tutti gli effetti palestinesi. L’obiettivo principale è condurre azioni di antiterrorismo, grazie alle informazioni che sono capaci di raccogliere sotto copertura. Si tratta chiaramente di operazioni molto difficili, che richiedono notevole preparazione e sangue freddo, nonché cinismo, dal momento che i mista‘arvim si integrano pienamente nel contesto palestinese creando una serie di reti anche affettive che vengono utilizzate per ottenere informazioni.
Non si tratta di una novità degli ultimi anni. Anche prima della fondazione di Israele, l’obiettivo della leadership sionista che viveva nella Palestina mandataria era raccogliere il più possibile informazioni che dessero all’Yishuv (la comunità ebraica residente in Palestina) un vantaggio rispetto alla popolazione araba. Per questa ragione, due furono le strategie messe in campo.
Da un lato, creare reti di collaborazionisti all’interno della comunità araba in modo tale che i sionisti potessero essere costantemente informati di quanto vi accadeva. Il collaborazionismo – su cui ha scritto due eccellenti volumi Hillel Cohen[1] – è tuttora un fenomeno molto diffuso, con la sua drammatica duplicità: da un lato, aiuta Israele a sventare attentati terroristici; dall’altro, però, costringe quei palestinesi che diventano collaborazionisti – e che nella maggior parte dei casi sono disposti a esserlo per la debolezza in cui versano – ad una vita fatta di continue menzogne, con il rischio molto concreto di poter essere uccisi nel caso in cui siano scoperti. Vari sono al riguardo i rapporti di ong che segnalano le violazioni dei diritti umani compiuti tanto dai servizi di sicurezza israeliani, quanto dalle organizzazioni palestinesi[2]. Il cinema palestinese e israeliano hanno negli ultimi anni affrontato questi temi, rispettivamente con Omar, del regista palestinese Hany Abu-Asad, e Bethlehem,del regista israeliano Yuval Adler, entrambi del 2013.
Dall’altro, infiltrare nei paesi arabi nemici spie che avessero una doppia vita: pienamente inseriti nel contesto arabo in cui si trovavano a vivevano, ma contemporaneamente legati ai servizi segreti israeliani cui fornivano le informazioni richieste. Già durante il Mandato – e in particolare agli inizi degli anni Quaranta – mista‘arvim furono utilizzati dalla leadership sionista sia nei paesi limitrofi, dal Libano alla Siria, all’Egitto, sia nelle principali città arabe palestinesi, Haifa, Giaffa, Tiberiade[3]. E dopo la nascita dello Stato tali operazioni aumentarono di numero e intensità. Il caso più noto è quello di Eli Cohen, ebreo egiziano capace di diventare consulente diretto del ministro della difesa siriano, prima di essere scoperto e giustiziato nel 1965[4]. Meno conosciuti sono i tanti casi di mista‘arvim che vivono nei Territori palestinesi occupati; la storiografia non si è occupata quasi per nulla di loro e da questo punto di vista la fiction, pur con i suoi limiti, può svolgere un ruolo utile nel fare luce su queste esperienze, presentandone la complessità, i rischi, le contraddizioni.
Le
vicende delle prime due stagioni di Fauda sono state ambientate in
Cisgiordania, dove è tuttora attiva un’unità di mista‘arvim, la
cosiddetta Sayeret Duvdevan – in ebraico unità ciliegia, a indicare “la
crème de la crème”, perché la ciliegia si mette in cima al dolce, anche sopra
la panna – istituita nel 1986. La terza stagione si svolge invece a Gaza,
sebbene l’unità di mista‘arvim che vi serviva – la Sayeret Shimshon,
in ebraico unità Sansone, perché le vicende bibliche di Sansone si svolsero
proprio a Gaza – sia stata ufficialmente sciolta nel 1996 a seguito degli
Accordi di Oslo, e sebbene la Striscia sia di fatto chiusa – non si può né
entrare né uscire, se non con permessi dell’esercito israeliano – dal giugno
2007, allorché gli scontri tra le due principale forze politiche palestinesi Fatah
e Hamas culminarono in una totale rottura e nella nascita di due
governi contrapposti, il primo in Cisgiordania e il secondo nella Striscia di
Gaza.
[1] Army of Shadows. Palestinian Collaborators in the Service of Zionism 1917-1948, Berkeley, University of California Press, 2008 (ed. or. in ebraico, 2004); Good Arabs. The Israeli Security Agencies and the Israeli Arabs, 1948-1967, Berkeley, University of California Press, 2010 (ed. or. in ebraico, 2009).
[2] Cfr. il rapporto di B’tselem, organizzazione israeliana per i diritti umani, dal titolo Collaborators in the Occupied Territories: Human Rights Abuses and Violations, pubblicato nel 1994, https://www.btselem.org/sites/default/files/publications/199401_collaboration_suspects_eng.pdf.
[3] Su queste vicende, cfr. Abigail Jacobson, Moshe Naor, Oriental Neighbors. Middle Eastern Jews and Arabs in Mandatory Palestine, Waltham (MA), Brandeis University Press, 2016, in particolare pp. 178-185.
[4] Su di lui non esistono biografie con un taglio scientifico. Cfr. il breve ritratto in Ian Black, Benny Morris, Israel’s Secret Wars. A History of Israel’s Intelligence Services, London, Hamish Hamilton, 1991, pp. 226-229.
Il Kaos di due mondi paralleli
Di Stefano Battilana
Vedere una serie fiction senza smettere fino alla fine, come una sbornia televisiva: si chiama bingewatching, 4-5 puntate alla volta, come per Breaking Bads, Il Trono di spade, Better call Saul, ecc. Stavolta era Fauda, Caos, in arabo; una controversa serie tv israeliana su Netflix, che è piaciuta sia a destra che a sinistra, nonostante la cruda resa del conflitto ebreo-palestinese, proprio per la problematicità dei punti di vista, che non è solo quella della “squadra”, un gruppo di agenti israeliani antiterrorismo, ma anche dell’Altro, il palestinese, al punto che la maggior parte dei dialoghi si svolge in arabo e di là del Muro. Prodotta e interpretata da un ex-agente segreto israeliano, Fauda è azione e coraggio, e la riflessione storica è solo accennata, come l’inevitabile portato di un mondo disperato, duro come una pugnalata. Eppure si guarda, eccome, e qualcosa si impara, anche della nostra Storia… segue una riflessione e il consiglio di vederla…
FAUDA. I protagonisti sono ebrei, ma la centralità è palestinese, la narrazione è israeliana, ma la location è la West Bank o Gaza. La lingua doppiata è l’ebraico, quella in originale è l’arabo, così gutturale e arrotato, così cerimoniale, anche nella laconicità. I saluti sono gli stessi: abbracci plateali, con pacche ripetute sulla schiena, i tre baci rituali, auguri di pace e bene, poi messaggi taglienti, silenzi di verità, profferte di lealtà, sincere o meno. Lo split fra i due mondi, fra l’Israele militare e la Palestina militarizzata è quasi istantaneo, al punto che l’arabo sottotitolato è più usato della lingua doppiata. Lo stile di vita, l’abbigliamento trasandato e cheap, il cibo, l’onnipresente hummus, il caffè, le sigarette a profusione, l’onore e l’orgoglio, la famiglia, l’appartenenza ontologica sono gli stessi, ma sono due mondi in guerra perenne, in una società tripartita, dove i bellatores sono soldati integrali, sullo sfondo di una faticosa società civile. Anche gli oratores sono una realtà separata, in questo scorcio di medioevo presente, sceicchi o ortodossi, tutti con un definitivo concetto dell’Altro. E poi c’è il protagonista, vero trait d’union fra moderno e levante, tanto arabo che pare dei loro, che prega in moschea come fosse dei loro, che si sente più a casa “di là” che di qua, come dice lui stesso.
L’AZIONE. Tre sono finora le stagioni della serie, che esplorano tutto il mondo ostile che circonda Israele, con una magistrale sortita a Gaza, un vero mondo separato, chiuso come la Manhattan del 1997 di un famoso film di fantascienza apocalittica. È facile splittare da un mondo all’altro, in un paese che ha le dimensioni spaziali di una nostra realtà regionale: tutte le distanze stanno sotto i 100 km e questo permette di teletrasportarsi in un attimo da un mondo all’altro (espressione non casuale, dal momento che il capo della Polizia sembra davvero Spock, vedere per credere). Tanti sono i morti, soprattutto comparse, come nei film d’azione, ma i cattivi veri o i membri della squadra Mista’arvim sono duri a morire e la loro morte foriera di conseguenze e dolore. Tanto è l’amore, spesso impossibile, e sempre infelice, sempre la Nemesi implacabile segue l’Hubrys e persino la raddoppia. Sarà casuale, ma il titolo ricorda la Faida, in una società dove impera il familismo, la preminenza del clan, l’onnipresenza del “Movimento”, la promiscuità fra il vivere e il morire.
L’ACQUA. Tuttavia c’è un dettaglio, un leit motiv ripetuto e quasi inosservato, che lega i due mondi, così contrapposti: l’acqua, da bere, per saziare la sete, per le abluzioni, per lenire le ferite e il malessere, per calmare i nervi. Tante volte, prima di un interrogatorio, dopo un pestaggio, prima di una condanna o solo per consumazione: un bene prezioso che noi neppure stimiamo, al punto che offrire solo un bicchier d’acqua pare persino poco ospitale. Qui no, l’acqua è un bene prezioso e tutti lo sanno e apprezzano. L’acqua è la vera ricchezza e la vera povertà della regione: Israele ha prosciugato il Lago di Tiberiade, il cui livello è sceso di più di 10 metri, per irrigare i suoi campi e le piantagioni, ha quasi seccato il Mar Morto, per coltivare il deserto e ora deve ripascere tutto il maltolto. E allora ecco la strategia, di cui non parlano i nostri giornali, su come dissetare tutto il mondo che sta di qua e di là dal Giordano: l’idea è facile e ardita al tempo stesso, rimpinguare il Lago di Tiberiade con acqua desalinizzata dal mare, che poi andrà a riversarsi anche nel Mar Morto. E ora viene il bello della storia: dal Lago al Mediterraneo corrono solo 50 Km, tutti in territorio israeliano, ma Israele ha i suoi ambientalisti, ferocemente contrari al riversamento di acque del mare in un lago di acqua dolce, con contaminazione batterica e inquinamento ambientale, e diritti di veto o di rallentamento. Ed ecco la soluzione: prendere l’acqua dal Mar Rosso, facendo una lunga tubazione attraverso la Giordania, ben 400 km invece che 50, ma senza conflitti sociali. Israele paga il tutto e ne ricava il 60 % dell’acqua, la Giordania ne ricava il 30 % solo per i diritti di passaggio e la custodia dell’idrodotto. E l’ultimo 10 %? Va ai Territori Palestinesi, sempre assetati e con poche risorse idriche: ecco l’elemento che tiene insieme i due mondi paralleli del titolo e che rende l’idea di come il conflitto a bassa intensità proseguirà, ma sarà solo una guerriglia fredda e crudele, non una vera guerra, come in precedenza. L’acqua fa l’equilibrio e anestetizza anche la minacciosa bomba demografica: anche a Gaza Israele manda 7 camion di viveri al giorno per tenere tutti dentro, perché i due mondi sono funzionali alla loro separazione e resteranno così nel loro fragile equilibrio e nel feroce contrapporsi. I capi si mettono d’accordo, ognuno deve badare al suo popolo e lo Statu Quo del 1852, il Trattato che disciplina rigidamente gli accessi ai luoghi santi di Gerusalemme, è tuttora la regola non scritta di questi mondi contrapposti, uniti dall’acqua che esce dal rubinetto.