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Baghdad Central: un thriller nel caos postbellico della guerra al terrore

Di Stefano Cavazza (Università di Bologna)

Baghdad notte fonda, una squadra di Marines irrompe in una casa ed arresta un uomo ritenuto un gerarca del regime iracheno. Sottoposto ad un cosiddetto interrogatorio potenziato, alla fine l’arrestato si rivela essere stato un ex-ufficiale della disciolta polizia irakena, non privo di sensi di colpa e disaffezione verso il regime che aveva servito. Liberato dalla prigione, Muhsin al-Khafaji accetta di collaborare con le forze della coalizione nel tentativo di ritrovare la figlia scomparsa. La sua ricerca si svolge in un Iraq frammentato, segnato dall’insicurezza, dove i liberatori – non tutti mossi da nobili intenti – si muovono con cautela, addentrandosi circospetti nei quartieri popolari come fossero ancora zone di guerra, mentre gli irakeni liberati guardano ai soldati stranieri come occupanti più che liberatori anche se in passato contrari a Saddam. Così il protagonista diventa un nemico nel suo stesso quartiere e deve sfuggire al rischio di diventare vittima di uno dei piccoli clan che la distruzione del regime di Saddam ha prodotto. La serie segue così la ricerca del padre della figlia Sawsan, una figura femminile interessante e distante dagli stereotipi, coinvolta in un gruppo critico verso Saddam ma anche alle forze della coalizione, è in cerca di giustizia.

Tratta da un romanzo dello studioso di Medio Oriente Elliott Colla dell’Università di Georgetown, la serie mostra il caos dell’Iraq post Saddam, un caos che ha lasciato il posto ad una situazione con molti elementi di insicurezza. Nel 2020 l’International Republican Institute, un think tank conservatore, condusse il suo periodico sondaggio nel paese intervistando oltre tremila cittadini da cui emerse un quadro molto articolato e poco confortante. Interrogati sulle loro prospettive future il 66% degli irakeni le valutava negativamente con punte del 69% nel sud e del 95% in Kurdistan. Bassa era anche la fiducia nella democrazia: il 45% degli intervistati vedeva la democrazia come la miglior forma di governo, il 23% pensava che vi fossero forme di governo migliori per l’Iraq e il 31% che vi sino forma di governo migliori per la democrazia. Nel sondaggio del 2021 il dato era peggiorato con il risultato favorevole alla democrazia sceso al 34% e un 74% di iracheni pessimisti sul futuro del paese con una punta dell’83% nel sud a maggioranza sciita. L’istituzione che suscita più fiducia resta l’esercito, mentre parlamento e partiti occupano l’ultimo posto. Elevata restava anche la corruzione: nel sondaggio del 2020 il 74% degli iracheni dichiarava di aver dovuto dare in cambio un favore, un dono o una tangente. A contribuire a questi risultati hanno concorso molti fattori, tra cui spiccano i molti mesi impiegati dopo ogni elezione per costituire i governi.  Per alcuni osservatori l’Iraq, pur facendo ricorso alle elezioni, non sembra funzionare come una vera democrazia, ma un regime in cui il ruolo dei gruppi etnici prevale su quello degli individui. La Freedom House nel 2023 ha classificato l’Iraq come un paese non libero. Ma non tutti la pensano così. Sul “Washington Post” Fareed Zakaria all’indomani delle elezioni del 2021 rilevava come le elezioni si fossero svolte in maniera corretta avviando per la sesta volta la formazione di un governo, segno di un consolidamento del sistema in cui i partiti e le istituzioni continuavano a svolgere un ruolo. Insomma, si tratta del classico bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Tuttavia, resta il fatto che la guerra al terrore, trasformata in un progetto globale di esportazione della democrazia, ha fallito sotto questo profilo in Afghanistan e in Iraq ha generato una situazione ibrida con effetti geopolitici in parte controproducenti e ancora in evoluzione.

La serie Tv e il romanzo da cui è stata tratta sono naturalmente storie di fantasia che proiettano però lo spettatore nelle concitate fasi dell’occupazione nell’immediato dopoguerra, in cui insicurezza e corruzione si mescolano al risentimento dei liberati e offrono una rappresentazione convincente e emotivamente coinvolgente delle conseguenze delle scelte della politica internazionale sulla vita delle singole persone.

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