Angela Romano (Università di Bologna)
Il 1° agosto quest’anno ricorre il cinquantenario della firma dell’Atto Finale di Helsinki, firmato solennemente nella capitale finlandese innanzi alla stampa mondiale dai leader dei trentacinque Paesi che avevano partecipato al lungo negoziato della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), svoltosi in varie fasi tra il 22 novembre 1972 e il 21 luglio 1975, prevalentemente a Ginevra.
L’idea di una conferenza paneuropea sulla sicurezza era stata proposta già a metà degli anni Cinquanta, e poi in seguito, dall’Unione Sovietica per risolvere la questione tedesca e del mancato trattato di pace dopo la Seconda Guerra Mondiale. Poi, nel marzo del 1969, il Patto di Varsavia aveva lanciato l’appello per una conferenza sulla sicurezza e la cooperazione, trovando, nel contesto di dialogo Est-Ovest allora esistente (la distensione), l’accoglienza di vari governi europei e l’offerta del governo finlandese di organizzare l’evento. L’esito dei negoziati, però, fu lontano dall’essere la realizzazione di molti degli obiettivi socialisti.
L’Atto Finale, un accordo politicamente solenne ma non giuridicamente vincolante, comprendeva tre capitoli di raccomandazioni, di cui richiedeva un progresso equilibrato: questioni relative alla sicurezza in Europa, compresi i principi guida per le relazioni tra gli Stati partecipanti e le misure di rafforzamento della fiducia (noto come “primo cesto”); cooperazione nei settori dell’economia, della scienza, della tecnologia e dell’ambiente (“secondo cesto”); cooperazione in campo umanitario e in altri settori (“terzo cesto”).
All’epoca, varia stampa ed esperti internazionali denigrarono la CSCE, vista come una mera parata diplomatica che sanciva lo status quo nel continente (quindi lasciando l’Europa centro-orientale al controllo sovietico) in cambio di vuote dichiarazioni di buona volontà: una “seconda Jalta”, addirittura una riedizione della Conferenza di Monaco del 1938 per Eugene Ionesco.
‘Un’analisi più attenta e obiettiva delle disposizioni dell’Atto finale e gli ultimi vent’anni di studi storici internazionali hanno smentito totalmente quei giudizi. L’Atto finale di Helsinki non sancì affatto la conservazione statica dello status quo; al contrario, avviò un processo dinamico volto a superare l’ordine della Guerra fredda in Europa, dando ragione a Samuel Pisar, che nel 1975 vide nell’Atto finale “un passo nella giusta direzione”[1].
In primo luogo, pur riconoscendo le frontiere esistenti, l’Atto finale le dichiarava inviolabili (tramite l’uso della forza, quindi) e ammetteva che “le frontiere possono essere modificate, in conformità con il diritto internazionale, con mezzi pacifici e mediante accordo”, legittimando così la possibilità di una futura riunificazione tedesca.
In secondo luogo, l’Atto finale respingeva in modo sistematico le limitazioni di sovranità agli Stati partecipanti “indipendentemente dal loro sistema politico, economico o sociale” (Preambolo). Il Principio I sulla sovranità affermava che ogni Paese aveva il diritto di definire e condurre come voleva le proprie relazioni con gli altri Stati, di scegliere liberamente di appartenere o meno ad alleanze o trattati multilaterali e di impostare e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale ed economico. Il principio II stabiliva chiaramente l’astensione dalla minaccia o dall’uso della forza allo scopo di indurre un altro Stato partecipante a rinunciare al pieno esercizio dei suoi diritti sovrani, aggiungendo che nessuna considerazione potesse essere invocata per giustificare la violazione di questo principio; il principio IV sull’integrità territoriale ribadiva l’astensione dall’occupazione militare o dalla minaccia di essa; il principio VI vietava agli Stati di intervenire, direttamente o indirettamente, individualmente o collettivamente, negli affari interni o esterni che rientrano nella giurisdizione interna di un altro Stato, “indipendentemente dalle loro relazioni reciproche”. Infine, il principio VIII affermava con forza il diritto dei popoli di scegliere sempre liberamente, quando e come vogliono, il loro status politico interno ed esterno, senza interferenze esterne, e di perseguire lo sviluppo politico, economico, sociale e culturale desiderato. È significativo che l’Occidente non combatté questa battaglia da solo: Romania e Jugoslavia, profondamente preoccupate dalla possibilità che il Cremlino ingerisse pesantemente nei loro affari, avevano spinto apertamente per l’inclusione del principio di astensione dalla minaccia o dall’uso della forza. Inoltre, varie dichiarazioni dei rappresentanti dei Paesi dell’Europa orientale rivelarono che essi guardavano alle disposizioni di Helsinki come a un mezzo per proteggere la loro indipendenza politica e integrità territoriale.
In terzo luogo, l’Atto finale affermava i concetti delle democrazie liberali in merito ai diritti umani e alla centralità degli individui, dando ai governi occidentali così come ai dissidenti dell’Europa centro-orientale uno strumento in più per richiedere legittimamente la modifica di alcune norme e pratiche dei regimi socialisti in merito alla circolazione delle persone, all’informazione e agli scambi culturali. Inoltre, l’Atto Finale chiamava gli stati firmatari a impegnarsi non solo nella cooperazione intergovernativa, ma anche a favorire le iniziative tra attori della società civile.
Molti sostennero che la natura non giuridicamente vincolante dell’Atto finale ne indeboliva le disposizioni. ll New York Times affermò causticamente “mai così tante persone hanno combattuto così a lungo per così poco”[2]. In realtà, vari giuristi fecero notare che gli Stati avevano assunto impegni firmando l’Atto Finale e non potevano più appellarsi al principio di non ingerenza esterna per giustificare la mancata osservanza delle disposizioni che avevano sottoscritto. Inoltre, se i rappresentanti dei regimi socialisti pensavano di poter ignorare facilmente le disposizioni di Helsinki a loro sgradite, perché si batterono per 55 sessioni di lavoro sul Principio VII? Perché cercarono di indebolire il più possibile il Terzo Cesto? Inoltre, documenti d’archivio hanno rivelato che le agenzie di intelligence e di sicurezza dell’Est prevedevano serie ripercussioni delle disposizioni di Helsinki sulla stabilità e sull’ordine interno.
La CSCE è oggi riconosciuta dalla storiografia internazionale come una sfida all’ordine bipolare in Europa. Questa sfida fu il risultato di un’azione intenzionale, sistematica, accuratamente preparata e fermamente combattuta da parte di alcuni Paesi europei: i nove membri della Comunità Europea (che alla CSCE parlarono all’unisono), i Paesi neutrali e non-allineati (Austria, Finlandia, Svezia, Svizzera e Jugoslavia) e la Romania, il cui regime già da anni difendeva la propria piena sovranità nazionale[3].
Dopo la conferenza di Helsinki, si susseguirono altri incontri CSCE – 1977-78 a Belgrado, 1980-83 a Madrid, 1986-89 a Vienna – che costituirono il cosiddetto “processo di Helsinki”. Seppur con risultati altalenanti, questi incontri contribuirono a mantenere aperto un forum paneuropeo di dialogo, talvolta decisamente acceso, e cooperazione. Con la fine della Guerra fredda sarebbe poi nata l’OSCE, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europa[4].
Il 1° agosto prossimo non ci saranno celebrazioni congiunte per il cinquantenario dell’Atto Finale di Helsinki. La guerra di aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina, infatti, non solo impedisce di ritrovarsi per celebrare il passato, ma nega l’essenza stessa della CSCE/OSCE, vale a dire di quello spazio paneuropeo dedicato all’applicazione di regole precedentemente accettate sulla sicurezza e la cooperazione, alla discussione di eventuali modifiche e alla negoziazione di ulteriori accordi per promuovere collaborazioni in vari settori, in un forum dove ciascun partecipante ha lo stesso peso – di stato sovrano – indipendentemente dalla sua capacità economica o militare e dove, tra i principi fondamentali solennemente accettati fin dal 1975, vi è il divieto di esercizio pressione coercitiva sugli altri stati per indurre specifici comportamenti in politica estera o interna. Le tensioni tra la Russia e vari stati – e poi l’aggressione russa all’Ucraina – sono il primo esempio cui si pensa; ma è doveroso ricordare anche il grave impatto sul funzionamento dell’OSCE del conflitto tra Azerbaijan e Armenia, che ha molti tratti simili al primo caso.
[1] International Herald Tribune, 30 July 1975.
[2] The New York Times, 21 July 1975.
[3] Per una riconsiderazione della Conferenza di Helsinki, che tiene in conto i più recenti studi internazionali, si veda Angela Romano, ‘The Conference on Security and Cooperation in Europe: A Reappraisal’, in Artemy M. Kalinovsky and Craig Daigle (eds.), The Routledge Handbook of the Cold War (London and New York: Routledge): 223–234, dsponibile qui.
[4] Un recente volume in lingua italiana riesamina i cinquant’anni di storia della CSCE/OSCE è Italia – Helsinki 50. Dall’Atto Finale di Helsinki del 1975 all’OSCE di oggi, a cura di Stefano Baldi e Luciano Monzali, Napoli, Editoriale Scientifica, 2024 (scaricabile qui)