Di Giordana Pulcini (Università Roma Tre)
La crisi dei missili di Cuba, di cui proprio in queste settimane ricorre il sessantesimo anniversario, è generalmente considerata uno dei momenti più pericolosi della Guerra Fredda. Nell’ottobre del 1962, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica giunsero infatti sull’orlo di un confronto nucleare che avrebbe potuto provocare milioni di morti nel giro di poche ore. Sessant’anni dopo, in un momento in cui la guerra in Ucraina sembra porre nuovamente il mondo di fronte alla possibilità di un disastro nucleare, opinionisti e studiosi guardano alla crisi dei missili di Cuba per trovare l’indicazione di una via d’uscita che, come nel 1962, scongiuri l’uso dell’arma atomica. Gli stessi leader di Russia e Stati Uniti, che negli ultimi mesi hanno più volte utilizzato la crisi rispettivamente come minaccia o monito, sembrano confermare questa sua rilevanza paradigmatica. Cosa ci ha quindi insegnato la crisi dei missili di Cuba? Tra le molte risposte che una letteratura amplissima ha dato a queste domanda, ce ne sono alcune che, nel contesto attuale, sembrano acquisire particolare importanza.
Numerosi libri, saggi e persino alcuni film hanno messo in risalto il presunto successo della “politica del rischio calcolato”, o brinkmanship, dell’amministrazione di John F. Kennedy e hanno raccontato la vicenda dei missili di Cuba come un serratissimo confronto tra due potenze avversarie che si è risolto quando una delle due, l’Unione Sovietica, fece un passo indietro di fronte alla risoluta fermezza dell’altra. Il Segretario di stato Dean Rusk avrebbe sintetizzato questa interpretazione con l’iconica frase: “we were eyeball to eyeball and I think the other just blinked”. Nel 1962 gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica impararono però che la brinkmanship è uno strumento pericoloso e poco adatto a risolvere una crisi in cui sono coinvolte le armi nucleari. Le fonti emerse dopo la fine della Guerra Fredda hanno rivelato che, sin dalle prime fasi della crisi, Mosca e Washington cercarono di evitare il più possibile una resa dei conti. Così il 24 ottobre il leader sovietico Nikita Kruscev richiamò le navi che portavano i missili a Cuba quando esse erano ancora ben lontane dal blocco navale schierato due giorni prima intorno all’isola caraibica per ordine del presidente statunitense. Lo stesso Kennedy aveva dato prova della sua cautela quando, annunciando al mondo la decisione di stabilire il blocco, scelse di definirlo una “linea di quarantena” per evitare che fosse considerato un atto di guerra. Dissipata l’illusione di poter davvero gestire il rischio, calcolato o no, di una catastrofe nucleare, Mosca e Washington preferirono la moderazione alla brinkmanship (Michael Dobbs, One Minute to Midnight. Kennedy, Khrushchev, and Castro on the Brink of Nuclear War, Alfred A. Knopf, 2008).
Per la prima volta dall’inizio dell’era nucleare, la crisi rese evidente che, in una situazione di estrema tensione in cui sono coinvolte potenze atomiche, eventi inaspettati possono inavvertitamente portare a una fatale perdita del controllo (Martin J. Sherwin, Gambling with Armageddon: Nuclear Roulette from Hiroshima to the Cuban Missile Crisis, Knopf, 2020). Più volte nel corso della crisi gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica hanno avuto occasione di assimilare questa lezione, ad esempio la notte del 27 ottobre, quando il capitano di un sottomarino sovietico armato di un siluro nucleare, rimasto isolato al largo di Cuba senza possibilità di comunicazione, fraintese le intenzioni delle unità antisommergibili statunitensi che si trovavano nell’aerea e fu sul punto di lanciare un attacco atomico contro di esse. Solo l’intervento all’ultimo momento di un altro ufficiale presente a bordo, insieme una buona dose di fortuna, evitò quello che poteva essere l’inizio accidentale di uno confronto nucleare (Svetlana V. Savranskaya, “New Sources on the Role of Soviet Submarines in the Cuban Missile Crisis”, Journal of Strategic Studies, 28:2, 233-259, 2005). Lo stesso giorno, gli Stati Uniti autorizzarono il volo di un aereo spia U2 su Cuba con lo scopo di monitorare i progressi compiuti dai sovietici nella costruzione delle basi missilistiche. Senza l’autorizzazione di Mosca, la contraerea sovietica presente sull’isola abbatté l’aereo statunitense. Quel giorno i due governi, che avevano nei giorni precedenti iniziato un timido negoziato segreto, ebbero finalmente una chiara misura di quanto rapidamente la situazione stesse sfuggendo al loro controllo.
In una situazione di così grande incertezza, si manifestarono chiaramente i rischi della controversa distinzione, tante volte tracciata e discussa nel corso dell’era atomica, tra armi nucleari più o meno distruttive, strategiche o tattiche, ad alta o bassa intensità. Grazie a nuove testimonianze emerse negli anni Novanta, si è infatti scoperto che, oltre ai missili a raggio intermedio in grado di raggiungere il territorio statunitense di cui Washington era a conoscenza dall’inizio di ottobre del 1962, i sovietici avevano portato sull’isola caraibica quasi un centinaio di armi nucleari tattiche a corto raggio che dovevano essere utilizzate per rafforzare le difese di Cuba. L’impiego di queste armi era considerato relativamente più accettabile rispetto a quello di sistemi dotati di maggiori capacità distruttive. Al contrario dei missili a raggio intermedio, sottoposti a una catena di comando che arrivava direttamente ai vertici della leadership sovietica, esse avrebbero potuto essere utilizzate sul campo di battaglia per iniziativa dei comandi militari locali, ad esempio contro la base statunitense di Guantanamo. Nel mezzo delle tensioni della crisi del 1962, il Cremlino si convinse però che anche uno scambio inizialmente “a bassa intensità” avrebbe potuto degenerare in un’escalation atomica senza controllo. Fu così che, subito dopo la conclusione con gli Stati Uniti dell’accordo che stabiliva la rimozione dei missili a raggio intermedio, i sovietici si affrettarono a portare via tutte le armi tattiche presenti sull’isola caraibica, benché la loro presenza non fosse nota a Washington e nonostante la veemente opposizione del leader cubano Fidel Castro (Sergo Mikoyan, con Svetlana Savranskaya, The Soviet Cuban Missile Crisis: Castro, Mikoyan, Kennedy, Khrushchev, and the Missiles of November, , Cold War International History Project, Stanford University Press, 2012).
In questo contesto, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti impararono l’importanza di avere a disposizione canali di comunicazione veloci ed efficienti. I messaggi che furono scambiati tra Mosca e Washington nel corso della crisi impiegarono ore ad arrivare a destinazione. Questo rese i negoziati fra i due governi, già molto complicati a causa della loro estrema segretezza, lenti e macchinosi, aumentando quindi il rischio di un fallimento. La necessità di una rapida comunicazione, utile per evitare pericolosi fraintendimenti in occasione di incidenti più o meno inaspettati, mostrò che i mezzi a disposizione erano totalmente inadeguati. Comprendendo l’importanza di instaurare canali di comunicazione veloci e affidabili, nei mesi successivi i sovietici e gli statunitensi decisero di creare un collegamento diretto tra la Casa Bianca e il Cremlino attraverso una “linea rossa”.
Nel mezzo di queste grandi difficoltà di comunicazione, il negoziato che portò alla conclusione della crisi fu agevolato da un canale confidenziale stabilito tra l’ambasciatore sovietico Anatoly Dobrynin e il fratello del presidente Robert Kennedy. Il successo di questa manovra di diplomazia segreta fu possibile grazie alla sussistenza, pur nel mezzo di una contesa durissima, di un’empatia tra i due avversari che permise di trovare un terreno comune e di concludere un accordo soddisfacente per entrambi. Allo stesso modo, negli anni successivi le due superpotenze, pur in un clima di competizione, riuscirono ad avviare un fruttuoso processo di controllo degli armamenti nucleari che portò grandi risultati, come la firma del Trattato per la limitazione parziale dei test nucleari del 1963 o la conclusione dell’accordo SALT I nel 1972. Questi negoziati produssero a loro volta un terreno favorevole al rilassamento delle tensioni tra i due blocchi che condusse alla distensione degli anni Settanta.La situazione attuale è, per molti aspetti, differente dalla crisi dei missili di Cuba. L’invasione dell’Ucraina è un conflitto sanguinoso provocato da una leadership russa che non gode di alcuna fiducia presso i suoi avversari. Nonostante la disponibilità di mezzi di comunicazione impensabili all’inizio degli anni Sessanta, non sembra che al momento esistano canali, diretti o indiretti, attraverso i quali possa essere aperto, almeno nell’immediato futuro, un dialogo tra la Russia e la NATO. Il presidente Vladimir Putin ha inoltre ripetutamente e apertamente cercato di utilizzare la minaccia nucleare come mezzo di pressione e ricatto, abbandonando la moderazione verbale che, proprio in seguito alle vicende dell’ottobre del 1962, era diventata consuetudine fra Mosca e Washington anche nei momenti di crisi più acuta. Nella quasi completa indifferenza dell’opinione pubblica, non più abituata a confrontarsi con i rischi del nucleare, gli arsenali si arricchiscono da entrambe le parti di testate atomiche a bassa intensità pensate per essere utilizzate in conflitti limitati, mentre il leader russo parla di impiego di armi tattiche in Ucraina. A differenza del 1962 non assistiamo però, almeno per il momento, a uno confronto diretto tra due potenze nucleari. Gli Stati Uniti, attenti, ma distanti, non subiscono oggi la pressione di dover temere per la propria sicurezza immediata e per il proprio prestigio. Non sono quindi costretti a prendere decisioni affrettate dettate dai tempi dell’emergenza. Questa situazione potrebbe però cambiare nel caso in cui la NATO si trovasse a essere direttamente coinvolta nel conflitto. In caso di un ulteriore innalzamento della tensione, l’esperienza accumulata negli ultimi sessant’anni potrebbe permettere di evitare quelle trappole che, durante la crisi dei missili di Cuba, portarono il mondo sull’orlo di una catastrofe nucleare.