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Dalla culla alla tomba: il rapporto Beveridge e le origini del welfare inglese

Di Giulia Guazzaloca (Università di Bologna)

In Europa la Seconda Guerra mondiale si era conclusa da pochi mesi quando lo storico Alan J.P. Taylor lanciò alcune provocatorie domande dai microfoni della BBC, domande a suo avviso imprescindibili per il futuro delle liberal-democrazie. Registrando il generalizzato entusiasmo degli europei per la «pianificazione» e l’intervento della «mano pubblica», si chiedeva se possa esistere «la libertà senza il capitalismo» e se sia possibile «conciliare il collettivismo economico con l’individualismo intellettuale». «Da parte mia – concluse – se ho fiducia in qualcosa è in questo: il Continente che ha dato i natali sia a Rousseau che a Marx, che ha prodotto tanto la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo quanto il Manifesto Comunista, produrrà anche una risposta al problema del nostro tempo». Taylor aveva dunque colto il nodo cruciale da cui prese le mosse la rilegittimazione dei sistemi politici europei dopo il 1945: se la domanda di «socialismo» appariva difficilmente eliminabile nell’Europa distrutta dalla guerra, essa doveva però conciliarsi con la grande lezione dell’umanesimo liberale: la libertà e i diritti individuali. In Gran Bretagna (e non solo) a tracciare la strada di questa conciliazione furono proposte di politica economica elaborate da John M. Keynes e da un altro brillante economista liberale, William Beveridge.

Già direttore della London School of Economics dal 1919 al 1937 e in seguito dell’University College di Oxford, Beveridge balzò agli onori delle cronache nel 1942 quando il capo del governo Winston Churchill gli affidò la presidenza di una commissione incaricata di elaborare un piano di previdenza sociale per il dopoguerra. Il rapporto finale, intitolato Social Insurance and Allied Services ma noto fin da subito come Rapporto Beveridge, venne pubblicato nel dicembre 1942 e, nonostante il carattere tecnico e specialistico, fu un successo clamoroso in Gran Bretagna e all’estero con decine di migliaia di copie vendute in poche settimane. Vi si proponeva un piano di sicurezza sociale, basato su proposte concrete e realizzabili, di tipo universalistico e tale da fornire a tutti i cittadini un livello accettabile di sostentamento; come disse Churchill, era un programma di tutela sociale «dalla culla alla tomba». L’ambizione di Beveridge era infatti quella di eliminare la povertà attraverso un piano integrato e onnicomprensivo di assicurazioni sociali, includenti il servizio sanitario nazionale, misure contro la disoccupazione, sgravi fiscali per i figli a carico. L’insieme di tali misure avrebbe dovuto garantire la «liberazione dal bisogno» che tuttavia, secondo Beveridge, era «solo uno dei cinque giganti sulla strada della ricostruzione» e, in fondo, «il più facile da combattere»; gli altri erano la malattia, l’ignoranza, lo squallore e la disoccupazione. Si trattava di un programma innovativo e ad ampio raggio, ben oltre il semplice contrasto alla povertà da cui pure aveva preso le mosse, fin dalla metà dell’Ottocento, la cosiddetta «questione sociale». 

Sebbene fuori dalla Gran Bretagna ci fu chi vide in questo progetto di edificazione del Welfare State il rischio di una deriva socialista, Beveridge – la cui fama internazionale venne suggellata nel 1944 dalla pubblicazione del libro Full Employment in a Free Society – era un autentico liberale che traeva le sue proposte dalle teorie fabiane dei coniugi Webb, dai provvedimenti del New Deal roosveltiano, dal bagaglio intellettuale del new liberalism di inizio Novecento. Escludendo quindi qualsiasi approdo ad un’economia completamente pianificata e ad una società totalmente controllata – incompatibili con la democrazia «quanto lo è il respirare sott’acqua» –, riteneva che il sistema di welfare dovesse reggersi sulla fondamentale «cooperazione tra lo Stato e l’individuo. […] Nell’organizzare il sistema di sicurezza sociale lo Stato non dovrebbe soffocare gli incentivi, le opportunità, la responsabilità; nello stabilire un livello minimo di reddito dovrebbe lasciare spazio e incoraggiare l’azione volontaria di ciascun individuo affinché ottenga più di quel minimo per se stesso e la sua famiglia». Gradualista ed evolutivo, tale programma si inseriva pertanto nella tradizione del riformismo sociale avviata da David Lloyd George e dai governi liberal-laburisti di inizio secolo. E difatti venne accolto con favore sia dal partito liberale che dal Labour, mentre maggiori resistenze le incontrò fra i conservatori; Churchill, temendone i costi elevati, inizialmente tergiversò ma alla fine, visto l’entusiasmo suscitato presso l’opinione pubblica e considerandolo un tassello importante della sua strategia per la vittoria ad ogni costo, vi aderì e fece redigere un documento governativo che sostanzialmente accettava le misure previste dal Rapporto.

Durante la guerra anche Keynes collaborò con l’esecutivo, in qualità di consulente del ministero del Tesoro, e nel 1944 fu a capo della delegazione britannica alla conferenza di Bretton Woods, dove si fissarono le nuove regole delle relazioni commerciali e finanziarie internazionali. Il suo contributo alla politica della ricostruzione postbellica non riguardò tanto l’aumento della presenza diretta dello Stato in economia, che in Gran Bretagna era sempre stata limitata salvo nei periodi di guerra, quanto piuttosto la fiducia negli effetti virtuosi della spesa. Secondo Keynes, infatti, l’accumulo di ricchezza non si sarebbe generato dal risparmio bensì dalla circolazione dei beni, produttrice automaticamente di investimenti; mentre la disoccupazione, riducendo il numero dei soggetti in grado di spendere, avrebbe causato lo stallo dell’economia, se non addirittura la depressione. Anche la sua linea, come quella di Beveridge, fu in parte recepita già dal governo Churchill che nel 1944, dopo un aspro e lungo dibattito, pubblicò un White Paper on Employment Policy: «il governo assume come uno dei suoi principali obiettivi e responsabilità il mantenimento di un alto e stabile livello di occupazione dopo la guerra». Era la prima volta che un governo inglese si faceva carico ufficialmente di un simile onere e la novità, per molti versi “rivoluzionaria”, era che ciò avveniva nel quadro di un sistema in cui l’iniziativa economica era perlopiù in mano privata e le risorse erano tendenzialmente allocate dal mercato.

D’altra parte, Keynes e Beveridge non avevano certo postulato di fare del governo statale il centro della pianificazione economica e le loro proposte, collocate nell’alveo della tradizione liberale, rappresentavano piuttosto un’ambiziosa sintesi tra laissez-faire e dirigismo economico: il tentativo, cioè, di rispondere alle domande di «libertà» e «socialismo» che lo storico Taylor sentiva levarsi dai cittadini europei all’indomani della sconfitta del nazifascismo. Fu all’interno di questa stessa corrente culturale che si innestarono poi le elaborazioni teoriche di pensatori socialdemocratici come Thomas H. Marshall e Anthony Crosland, i quali proponevano una ristrutturazione per via democratica del sistema capitalistico tale da finalizzare le risorse disponibili al «bene comune». Marshall, sociologo, formulò nel 1948 la sua teoria della cittadinanza secondo cui in Gran Bretagna gli individui avevano ottenuto prima i diritti civili (tra la metà del XVII e l’inizio del XIX secolo), poi quelli politici (1832-1918) ed era giunto il momento di assicurare loro anche i diritti sociali; istituzionalizzati mediante il Welfare State, essi avrebbero ridotto le diseguaglianze nelle condizioni di vita e contribuito a sviluppare una «cittadinanza democratica». Crosland, intellettuale e politico laburista, autore del volume The Future of Socialism (1956), riteneva che il marxismo avesse ormai «poco o nulla da offrire al socialismo contemporaneo», ma anche che fosse finita per sempre «la breve, e storicamente eccezionale, epoca del libero mercato»; spettava dunque allo Stato farsi arbitro della vita economica per indirizzarla lungo la strada della crescita e della giustizia sociale.  Fu sulla base di questo intenso dibattito intellettuale che tra il 1945 e il 1951 il governo inglese adottò una strategia economica nella quale convivevano le teorie keynesiane, le misure di welfare del piano Beveridge e una certa quota di intervento dello Stato in economia sia come “pianificatore” sia come “imprenditore”. Non fu tuttavia Winston Churchill protagonista dell’edificazione di questa «nuova Gerusalemme», espressione molto diffusa all’epoca per descrivere l’ansia di rinnovamento che pervadeva la società britannica appena uscita dalla guerra. Vincitore sui nazisti e clamorosamente sconfitto alle elezioni del luglio 1945, Churchill dovette infatti cedere il passo al leader del partito laburista Clement Attlee, un riformatore moderato anch’egli legato alla tradizione del new liberalism. Il compito che gli si profilava davanti era tutt’altro che facile; aveva di fronte un paese stanco e prostrato, segnato da vecchie e nuove divisioni, disilluso nonostante l’iniziale euforia per la vittoria, ma che si aspettava la promessa fatta da Beveridge nel suo Rapporto: la felicità dell’uomo comune. Sono passati ottant’anni dalla pubblicazione di quel documento, tante cose sono cambiate, ma la sfida lanciata da Beveridge appare ancora attuale: cercare il giusto equilibrio fra individuo, Stato e mercato, tra libertà individuale e giustizia sociale.

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